Sei anni fa, nel 2019, in una baraccopoli costruita nell’abbandono di uno Stato distratto e di un’Europa indifferente, moriva Eris Petty Stone. In realtà si chiamava Omowunmi Bamidele Adenusi, nata a Lagos, Nigeria, madre di due figli lasciati nel paese d’origine. Era arrivata in Italia nel 2015 con la speranza di costruire qualcosa di diverso. Ma qui ha trovato sfruttamento, paura, invisibilità. Era una vittima della tratta.
Prima obbligata alla prostituzione, poi finita nelle mani del caporalato nei campi del Metapontino, dove i braccianti vengono pagati 3 euro e 50 l’ora per 14 ore di lavoro al giorno. Viveva, come altre centinaia, nei capannoni dell’ex area industriale de La Felandina, a Metaponto di Bernalda, in provincia di Matera. Uno scheletro di cemento e promesse incompiute, un complesso da 106 milioni di euro mai davvero nato. Al suo posto, baracche, degrado, e silenzio. Quella mattina d’agosto, una bombola di gas esplose. Le fiamme avvolsero tre capannoni. Petty morì tra quelle lamiere annerite, in un rogo che nessuno ha mai chiarito del tutto. Il suo nome è diventato simbolo. Di una lotta che va oltre il dolore. Di una memoria collettiva che si rifiuta di accettare l’ingiustizia come normalità.
Che ogni vita conta. Che non possiamo più voltare lo sguardo davanti allo sfruttamento sistematico e alla violenza che attraversano i campi del Sud. Petty non ha mai avuto una casa vera. Ha vissuto nei ghetti, tra la polvere, senza acqua né luce, in mezzo a uomini e donne come lei: regolari sulla carta, fantasmi nella realtà. Dopo la sua morte, si è parlato di sgomberi, progetti, bandi da milioni di euro per migliorare l’accoglienza. Qualcosa si sta facendo ma, spesso, si scontra con il pensiero ipocrita di chi dice ''risolviamo il problema, ma da un'altra parte''.
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