33 anni fa gli otto morti di collina Timpone a Senise
26/07/2019
Il ricordo è un dovere. Ed oggi sono passati 33 anni dall’alba tragica di collina Timpone a Senise. Il 26 luglio del 1986, poco dopo le 4.00 del mattino, la casa che si trovava in cima alla collina si ripiegò su se stessa, quasi implodendo. Le macerie finirono nel vuoto che c’era sotto la terra. Due grosse lingue di terra cominciarono la loro cavalcata lateralmente portandosi appresso tutto quello che trovavano. Morirono 8 persone, tra cui 4 bambini. Di questi tre erano fratelli e una era nata il 24 giugno di quell’anno. Aveva appena un mese di vita. Le vittime furono: Rocco Gallo, sua moglie Rita; la sorella Linuccia Gallo, suo marito Giuseppe e la loro piccola Francesca; Pinuccio, Maria e Maddalena, i tre fratellini Durante. Si salvarono i piccoli Giovanni e Francesco, protetti dai corpi di papà Rocco e mamma Rita e la loro cuginetta Lucia, scaraventata dal papà e trovata miracolosamente viva a diversi metri di distanza dalle macerie della loro casa. La tragedia di Senise ha, fondamentalmente, due padri: la negligenza amministrativa e l’inettitudine umana. “Che la collina di Senise avrebbe potuto cedere lo sapevano in molti- scrisse, all’epoca, ‘l’Osservatore Romano’- Lo temevano tutti. Anche la Protezione Civile. L’area interessata alla frana è infatti nota come una delle zone a più alto rischio idrogeologico della Basilicata. Tanto che un anno prima il genio civile di Potenza aveva previsto una serie di interventi finalizzati alla canalizzazione delle acque di superficie e di falda. Queste opere non sono nemmeno state avviate”. La frana di Senise, però, paradossalmente, non rientra nell’infinito capitolo dell’abusivismo italiano, perché le palazzine di collina Timpone avevano regolari concessioni edilizie. La frana di Senise è stato un caso di studio a livello internazionale. Nonostante questo nelle stanze del Comune di Senise e in Regione Basilicata non esiste un archivio dedicato alle opere realizzate in seguito alla frana del 1986. Oggi, alle 18.00 nella chiesa di San Francesco, si terrà una messa in ricordo delle vittime. “La frana di collina Timpone- ha detto il commissario straordinario del Comune di Senise Alberico Gentile-deve vivere in un ricordo perenne da tramandare alle future generazioni, non solo per un doveroso rispetto nei confronti di chi, quella mattina, perse la vita o una persona cara; anche affinché la tutela del territorio, il rispetto nei confronti della natura e della vita umana prevalgano su ogni altra cosa”.
Mariapaola Vergallito
da 'Le parole scomparse' di Pino Rovitto:
Frãnë (A frãnë ri Tëmbúnë)
Dov’è la vita che abbiamo smarrito vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?
T.S. Eliot
Ricordo, con l’intatta trepidazione di allora, quando, con Pasquale, dai Tëmbúnë, da quelle piccole alture sabbiose, sentivamo il cuore arrestarsi per un attimo: davanti a noi, nelle inquiete e giovanili giornate primaverili, il vento di fine maggio, l’ondeggiare, ipnotico, delle spighe di grano. La storia di Senise, dell’amicizia, degli uomini è racchiusa in quel vento dolce che soffia tra le spighe di grano.
Poi, il 26 luglio del 1986, a rë Tëmbúnë, nei saponosi calanchi, su quelle piccole e malinconiche alture sabbiose, è successo qualcosa di terribile. La storia si è fermata, il vento dolce, per un attimo, ha smesso di soffiare.
Una frana: otto morti.
Sul luogo del disastro, la vista è desolante. Soffia un vento caldo. La sabbia argillosa si mischia al sudore e alle lacrime. Pulviscolo e sole.
Odore di polvere, polvere invadente e asfissiante, odore di sole e foglie secche. Polvere estiva. L’aria è rarefatta. Il cielo lattiginoso. Il paese è nudo, indifeso, in preda al caos e allo sgomento. C’è incredulità.
È come se la natura, oltraggiata, si fosse ribellata. È come se gli spiriti, gli dèi, si fossero ribellati alla loro esclusione dal mondo degli uomini.
Qualcosa di arcano trasuda da quelle macerie. I vecchi del paese, probabilmente, avevano ragione. Vecchie dicerie raccontavano che su quella collina ci fossero i fantasmi «cë ièssënë». I vecchi sostenevano che lì, su quelle alture sabbiose, non bisognava costruire.
Noi sappiamo che i fantasmi, dati alla mano, non esistono. Non hanno forma materiale, né energia, né pensiero. Non esistono, ma nel mondo dei vecchi, fatto di leggende, credenze e dicerie, ogni cosa aveva il suo posto e un suo destino. Si facevano guidare dall’intuito, dalla superstizione, da una visione spirituale del mondo e della vita.
Quelle che si considerano superstizioni erano soltanto frammenti di una forma di conoscenza antica. Sono una sorta di enciclopedia selvaggia delle conoscenze umane.
Superstitio in latino significa venerazione religiosa, rispetto del sacro. E non sono diventate supreme superstizioni la società, l’ideologia, la cultura, la scienza, l’economia, gli algoritmi?
Era - quella - una religione naturale, un vincolo fondato sull’invisibile, senza alcuna gravità morale; era - quella - una forma di conoscenza pre-epistemica, che suggeriva ai vecchi dove costruire, dove coltivare, dove divertirsi, dove non andare. Era quella una magia che permetteva di reagire alle frustrazioni della realtà, che alleviava il dolore e le tensioni.
Non con i miei soldi. Non con i nostri soldi di don Marcello Cozzi
Parlare di pace in tempi di guerra è necessario, ma è tardi.
Non bisogna aspettare una guerra per parlarne. Bisogna farlo prima.
Bisogna farlo quando nessuno parla delle tante guerre dimenticate dall'Africa al Medio Oriente, quando si costruiscono mondi e società sulle logiche tiranniche di un mercato che scarta popoli interi dalla tavola dello sviluppo imbandita solo per pochi frammenti di umanità; bisogna farlo quando la “frusta del denaro”, come ...-->continua