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Il liutaio lucano morto sul Titanic e il suo segreto

13/04/2012



Quando la mattina del 10 aprile 1912 Alfonso Meo Martino, liutaio e maestro di violino lucano, salutò moglie e figli iniziando un lungo viaggio che lo avrebbe dovuto condurre fino a New York, forse non portava con sé soltanto il prezioso bagaglio ma anche un inconfessabile segreto. Si imbarcò dal porto di Southampton nella contea dell'Hampshire proprio di fronte all’isola di Wight. Scelse una cabina di terza classe, laggiù, sotto la poppa, che pure tra le più economiche era una sistemazione che gli consentiva un certo agio: pagò per il biglietto 13,1 sterline (che al cambio di oggi varrebbero circa 1300 euro). In terza classe, per dire, si trovava posto anche a 3 sterline. E questo a dispetto del lusso che trasudava dal resto del transatlantico, l’inaffondabile Titanic, che quel giorno era al suo viaggio inaugurale.

Il nome di Alfonso Meo Martino, classe 1864, ufficialmente nato a Potenza (o forse a Vaglio di Basilicata anche se di lui all’anagrafe non si trova traccia), spunta oggi nell’elenco delle 37 vittime italiane del terribile naufragio avvenuto esattamente cento anni fa. Era il 15 aprile 1912 : gli italiani imbarcati erano 40 e solo in tre sopravvissero. Tra i 1512 morti nel viaggio verso l’America, quelli italiani erano tutti settentrionali tranne lui, meridionale e lucano. A differenza di gran parte degli altri connazionali, Alfonso Meo Martino non faceva parte dell’equipaggio. Loro erano in gran parte camerieri, cuochi, inservienti, e il posto più in alto in grado era quello di Gaspare Gatti, responsabile dei ristoranti della White Star che aveva arruolato gran parte del personale di cucina.
Lui no: Alfonso era un viaggiatore a tutti gli effetti. Sebbene andasse in terza classe, si presentò all’imbarco vestito in modo elegante: abito completo di colore blu, occhialini sul naso e orologio d’argento nel taschino. Nel portafoglio aveva 15 sterline e qualche moneta d’oro mentre nel bagaglio custodiva una piccola tabacchiera di argento.

E poi il violino. Lo aveva fabbricato con le proprie mani, nella sua bottega in Old Christchurch road al numero 95 di Bournemouth, nel Dorset: un piccolo laboratorio per la costruzione e la vendita di strumenti musicali che gli aveva consentito in pochi anni di conquistare una fama giunta persino oltre i confini del Regno Unito. Ed infatti quel violino era destinato ad un cliente che viveva a Washington del quale non si è però mai saputo il nome. Nel naufragio del Titanic il liutaio morì, intrappolato nella sua cabina di terza classe, settore della nave dalla quale solo in pochi riuscirono a salvarsi giacché il comandante aveva chiuso a chiave il cancello di uscita. Una orribile procedura che si sospetta venne attuata per consentire ai passeggeri di prima e seconda classe di raggiungere per primi le pochissime scialuppe disponibili. Altri sostengono invece che fosse prassi dell’epoca rinchiudere i viaggiatori più poveri in una zona isolata delle navi: quelli del Titanic infatti non sarebbero scesi come tutti gli altri al molo 59 di Manhattan, ma sarebbero stati sbarcati sulla banchina di Ellis Island dove sarebbero rimasti in quarantena, come prescriveva la legge americana, a scanso di malattie.

Comunque andò, il liutaio lucano non ebbe scampo. Il suo corpo venne recuperato alcuni giorni dopo l’affondamento del transatlantico. Prima venne semplicemente indicato col codice “201” e descritto come «uomo di circa 55 anni, capelli e baffi scuri». I suoi resti furono trasportati ad Halifax (in Canada), finalmente identificati e infine sepolti con nome e cognome nel cimitero locale di Fairview. Era il giorno 10 maggio 1912, esattamente un mese dopo la sua partenza. Non è chiaro se la famiglia nel Dorset abbia mai chiesto la restituzione del corpo. Si è invece saputo che avanzò richiesta di risarcimento alla compagnia White Star Line proprietaria del Titanic, per una somma di 1459,95 dollari, anche se non è chiaro quanto poi abbia davvero ottenuto. Comunque poco rispetto alla richiesta di risarcimento presentata ad esempio da Irene Wallach Harris che perse nel naufragio il marito, Henry Burkhardt Harris, produttore di teatro di New York, e che chiese a titolo di danni un milione di dollari. O come la signora Charlotte Wardle Drake Martinez Cardeza, miliardaria divorziata, che chiese alla White Star Line un risarcimento di 177.352,74 dollari: non per la perdita di vite umane ma per l’insopportabile smarrimento dei suoi bagagli. La triste storia del liutaio lucano Alfonso Meo Martino, potrebbe dunque finire qui. E nelle rarissime cronache disponibili che riportano il suo nome, questa storia effettivamente è così che si conclude. Al pari di gran parte delle storie degli altri 36 italiani morti in quel naufragio e alle quali nessuno ha mai dedicato speciale attenzione.

Eppure a scavare tra i documenti, la vicenda personale del maestro di violino si tinge di mistero. A cominciare dal motivo del viaggio. Alfonso Meo Martino doveva consegnare a Washington il violino che gli era stato commissionato da un cliente americano, e questo lo sappiamo. Ma perché invece di imbarcarsi personalmente (e affrontare spese e disagi) non lo spedì con un semplice pacco sfruttando proprio il modernissimo servizio postale diretto che il Titanic metteva a disposizione? Quel 10 aprile 1912 il transatlantico trasportava 3814 sacchi postali, a riprova che il sistema era ben collaudato.

Secondo punto. Alfonso Meo Martino amava viaggiare ma non lo faceva quasi mai da solo. Generalmente tuttavia non era la moglie Emily Jane Innes ad accompagnarlo, ma la figlia: per sua fortuna quella volta la ragazza non c’era. Ma perché proprio allora aveva scelto (o era stata indotta) a rimanere nel Bournemouth nonostante l’eccezionalità del viaggio? E poi: a chi erano destinati un misterioso orologio da donna in oro e ben otto anelli che l’uomo custodiva con tanta cura al punto da essere poi ritrovati addosso al suo cadavere?

Il mistero si infittisce ulteriormente quando si scorre la lista dei passeggeri. Alfonso Meo Martino acquistò il biglietto numero 11206, pagandolo 13,1 sterline: un prezzo che in realtà corrispondeva al biglietto per una persona in seconda classe. Ma perché lui con la stessa somma venne relegato in terza? Forse non viaggiava solo? Scorrendo il registro di imbarco si scopre che il liutaio lucano forse viaggiava con un neonato. È scritto chiaramente e salvo un errore dell’addetto alla registrazione, non c’è possibilità di equivoco: “Alfonzo Martino un adulto e un neonato”. La presenza del bebè viene indicata con una “X” segnata amatita nera nella colonna accanto al nome, e sembra aggiunta in un secondo momento se non altro perché è diverso il colore rispetto alla penna usata nelle altre annotazioni. Curiosamente però non vengono indicati né il nome e neppure l’età del piccolo, procedura seguita invece con ogni altro passeggero-bambino: qualche riga più giù, ad esempio, viene registrato Philip Aks, del quale viene annotata anche l’età, 8 mesi e mezzo, e il cui nome ricomparirà fortunatamente anche nella lista dei sopravvissuti.

Insomma era davvero solo un viaggio di affari quello che portò Alfonso Meo Martino a imbarcarsi sul Titanic? E se è vero che portava con sé un bambino, di chi era figlio? E perché viaggiava senza che nessuna delle donne di famiglia lo accompagnassero nonostante l’esigenza di accudire il piccolo? E che fine ha poi fatto il bambino? In terza classe, secondo un’attenta ricerca condotta da Claudio Bossi che da anni studia nei dettagli la tragedia del Titanic, viaggiavano ufficialmente 81 bambini: il più piccolo aveva 5 mesi, il più grande 12 anni (oltre i 12 anni i passeggeri venivano indicati genericamente come adulti). Tra questi bambini i morti furono 51. Nessuno però tra i piccoli imbarcati in terza classe risulta essere di nazionalità italiana. Questa circostanza, insieme a quella “X” aggiunta all’ultimo minuto sul registro e all’assenza di qualunque nome, fa ritenere che il neonato che portava con sé Alfonso Meo Martino (se è corretta l’annotazione scoperta sul documento dell’imbarco) in realtà non venne mai registrato. Un clandestino in fasce quindi. Ma che forse, miracolosamente, si salvò.

La storia fa un salto di 97 anni e ricomincia nel 2009. Il nome di Alfonso Meo Martino rispunta a sorpresa sul web, nel sito americano Ancestry.com specializzato in ricerche genealogiche e frequentato da milioni di utenti che vanno a caccia di antenati. Chi cerca di risalire alle origini del maestro lucano è Nicole B., forse cittadino britannico, che sul conto di quell’uomo sembra aver già scoperto qualcosa. Ad esempio che Alfonso aveva un fratello gemello di nome Antonio, e che probabilmente appena nato aveva lasciato la Basilicata insieme ad un altro fratello, Gaetano, trasferendosi con la famiglia a Parigi dove per alcuni anni aveva posato come modello per alcuni celebri pittori. Già allora aveva la passione per il violino mentre Gaetano studiava l’arpa. Fino alla nuova emigrazione, questa volta con destinazione Inghilterra: prima a Oxford, poi a Londra e infine nel Bourthmonth dove aprì una bottega di liutaio. «Sto indagando su Alfonso Meo Martino e sulla sua morte sul Titanic – scrive Nicole su quel sito – perché sospetto che mio nonno fosse un suo figlio illegittimo».

E qui per così dire la storia riserva il suo colpo di scena. Dunque il liutaio lucano Alfonso Meo Martino forse aveva un figlio illegittimo che sicuramente gli sopravvisse fino ad età avanzata, al punto da essere diventato nonno. Un segreto privatissimo che l’uomo deve aver gelosamente custodito fino all’ultimo se a distanza di 100 anni se ne cercano ancora le tracce chattando sul web. E allora il dubbio diventa legittimo: e se fosse proprio quel figlio illegittimo il misterioso bambino che il maestro di violino portava con sé nel suo viaggio verso l’America? Un neonato forse affidato ad altri (magari ad una coppia di viaggiatori di prima classe) che al momento del naufragio ebbero la forza, o anche soltanto la possibilità, di caricarlo su una scialuppa e portarlo in salvo.

Come andarono davvero le cose probabilmente non lo si saprà mai. Del resto la vicenda del liutaio lucano, e quella del piccolo clandestino sopravvissuto al Titanic, sembrano solo dettagli se rapportati alla smisurata tragedia di quel naufragio. Anche se il mito del super piroscafo dei ricchi dopo un secolo riesce a sopravvivere proprio così: perché il suo carico di storia adagiato sul fondo dell’oceano, rilascia incessantemente frammenti di umanità. E quelli come minuscole bolle si staccano dal relitto, iniziano a galleggiare e lentamente risalgono fino a noi.

carlo.bollino@gazzettamezzogiorno.it



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