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Grano: la beffa della nuova etichettatura d’origine

22/08/2017

Il decreto fortemente voluto dal Governo non garantisce i consumatori sulla reale presenza di grano nazionale nei pacchi di pasta italiani. Per il deputato L’Abbate (M5S), “il limite del 50% rischia di rilevarsi una beffa”

Con i nuovi decreti sull’etichettatura della pasta e del riso, dal prossimo febbraio sarà obbligatorio esplicitare sia la provenienza del grano, ovvero il suo Paese di coltivazione, sia il luogo della sua molitura. In pratica, se il grano duro è coltivato almeno per il 50% in un solo Paese, come ad esempio l’Italia, si potrà usare la dicitura “Italia e altri Paesi UE e/o non UE” in funzione dell’origine comunitaria o meno della restante metà. Idem per l’etichetta del riso dove dovranno essere chiaramente indicati sia il Paese di coltivazione sia quello di lavorazione e confezionamento. Un provvedimento che ha diviso la filiera con, da un lato, le aziende produttrici di pasta che hanno sempre avuto ritrosia nel dichiarare apertamente che il 20-40% del grano utilizzato proviene da Australia, Canada, Francia o Stati Uniti, difendendosi dietro l’insufficienza della produzione italiana e la sua scarsa qualità proteica mentre, dall’altro lato, le associazioni di categoria degli agricoltori a difesa delle coltivazioni nazionali.

“Ma nel braccio di ferro tra Ministero delle Politiche Agricole e Ministero dello Sviluppo Economico il più grande sconfitto è, purtroppo, il consumatore – dichiara il deputato pugliese Giuseppe L’Abbate, capogruppo M5S in Commissione Agricoltura alla Camera – L’etichetta, infatti, rischia di essere assolutamente ingannevole perché nessuna verifica può garantire che il grano italiano presente nel pacco di pasta che compriamo sia presente al 50% o all’1%. Il limite della percentuale inserita dal Governo non fa altro che raggirare i consumatori italiani. Sarebbe stata più onesta una generica dicitura ‘miscele di grani Ue/non Ue’ piuttosto che illudere tutti dell’acquisto di un prodotto in gran parte tricolore ma che, nei fatti, rischia di non esserlo. Per questo – continua L’Abbate (M5S) – alla riapertura dei lavori della Camera presenteremo una interrogazione parlamentare per chiedere come il Governo intenda verificare la veridicità di ciò che verrà dichiarato in etichetta. Siamo da sempre in prima linea per una ‘etichetta parlante’ ma questo provvedimento, che peraltro non ha rispettato le tempistiche indicate da Bruxelles, sembra essere più uno specchietto per le allodole che uno strumento in mano ai consumatori e alla filiera cerealicola nazionale”.

Le imprese italiane avranno 180 giorni di tempo per adeguarsi alla normativa nonché per smaltire le etichette e le confezioni già prodotte. I provvedimenti, nelle intenzioni del Governo, intendono anticipare la completa ed effettiva entrata in vigore del Regolamento comunitario 1169 del 2011 ma rischia, al contempo, di aprire una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles ai danni dell’Italia.






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