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Nei Musei ACAMM Carlo Lorenzetti e Bruno Conte |
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27/06/2018 | Nel 1982, per una mostra alla Galleria Il Segno di Roma che comprendeva, oltre Carlo Lorenzetti, Giulia Napoleone e Bruno Conte, anche Rodolfo Aricò e Giuseppe Uncini, Fausto Melotti intitolava Realtà in equilibrio il testo pubblicato in un foglio-manifesto diffuso per l’occasione. Considerava i cinque artisti “anacoreti, lontani dalle tentazioni del mondo” che “vedono dalle finestre e conoscono fuori e anzitempo ciò che sarà necessario alla costruzione dell’edificio dell’arte” […], compagni nella ricerca, […] compagni in ciò che l’arte richiede, sacrificio e amore. […]. Non di mimi, si tratta di alcune pietre portanti dell’arte”.
Il Sistema ACAMM, in contemporanea con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, accoglie due dei cinque “compagni nella ricerca” ricomponendone il percorso in tre mostre, curate da Giuseppe Appella: lo scorso anno Giulia Napoleone (Pescara 1936), in occasione della mostra alla Calcografia Nazionale, quest’anno, dal 30 giugno al 30 settembre 2018, Carlo Lorenzetti (Roma 1934) e Bruno Conte (Roma 1939).
Carlo Lorenzetti e Bruno Conte presentano 80 disegni e 20 sculture datati 1956-2018, ricomponendo l’intero percorso della propria ricerca espressiva.
Lorenzetti ci racconta: “L’Istituto d’Arte è stato per la mia formazione un luogo molto importante. Ho seguito, per due anni, i corsi di Plastica di Pericle Fazzini, uno spirito solare, schietto, spontaneo, che mi sollecitava verso una libertà formale e compositiva. Un giorno mi invitò a vedere il lavoro che stava realizzando per la Cappella dedicata a Santa Francesca Saverio Cabrini nella chiesa di Sant’Eugenio a Roma: rimasi colpito dal suo modo di affrontare il gesso con strumenti del tutto inusuali, soprattutto nel gruppo composto dalla statua della Santa e di un angelo. Per il Disegno ebbi come maestro Afro, di cui mi colpì il silenzioso ma efficace guidare in un processo di semplificazione. Ancora, accanto all’insegnamento di storia dell’arte, alquanto serioso, di Vincenzo Golzio, ricordo Ludovico Quaroni che nel disegno progettuale metteva in atto una metodologia fortemente pragmatica e stimolante, coinvolgente ed efficace per una educazione visiva della forma.
Ma devo soprattutto al magistero di Alberto Gerardi la conoscenza preziosa delle tecniche di lavorazione dei metalli e il senso ‘umanistico’ del fare. In tale contesto matura, dopo esperienze pittoriche, la mia più forte inclinazione verso la scultura, sollecitata pure, devo dirlo, dalla realtà artistica di Roma nella sua stratificazione temporale.
Passavo ore a passeggiare nella città per scoprire monumenti, soprattutto dell’antichità romana e del periodo barocco. Per non parlare, poi, della mia ammirazione per i maestri pittori e scultori del passato (Arnolfo di Cambio, Nicola e Giovanni Pisano, Masaccio, Bernini). Quanto ai contemporanei, la mia esigenza era più quella di conoscere che non quella di trovare degli interlocutori diretti”.
Invece Conte: “Riguardando i miei primi lavori, dopo la metà degli anni Cinquanta, elaborati entro un microcosmo surreale, mi sembra già di avvertire, nel disegno delle forme lineari, una segreta scrittura. Il carattere della poetica che si è andato sviluppando e mutando fino a oggi si può identificare nella tematica di una misteriosa, eppure coinvolgente, materia della realtà: oltre il macrocosmo, il cosmo assunto nella stanza in cui si opera. Certo, le varie correnti d'avanguardia che si sono succedute non hanno mancato di lasciare un suggerimento. Tuttavia questi suggerimenti sono stati appresi nel mio mondo di sentire, pagando in fondo con una autonomia la possibilità di una utile rispondenza ai modi del momento.
Le mie opere sono concettuali, ma nella loro forma, ancora meditata, tra equilibrio e squilibrio. Metafisici eventi e oggetti alieni. I "Libri lignei", i "Paginari", contengono dei messaggi. Sensazioni di messaggi, che non essendo espliciti agiscono sottili nelle pieghe del pensiero”.
Sembrerebbe, ad una lettura frettolosa, un equilibrio precario quello che accomuna i due artisti, l’uno il versante opposto di una ricerca che proprio quando penetra a fondo nelle avanguardie o valuta il peso delle materie e della perizia tecnica necessaria per affrontarle e renderle parte fondamentale dell’invenzione, aspira a visioni euclidee, a tradurre in nuovo linguaggio la realtà, a ridare vigore alla dialettica delle forme che nella solitudine operosa dello studio tornano a catturare i nostri sogni.
Come si vede, negli organismi di Conte e nelle strutture di Lorenzetti, affidati a segni e costruzioni che coniugano perfettamente pittura e scultura, architettura, letteratura e scienza, quindi registri molteplici e diversi che si sollecitano l’un l’altro, l’immagine si fa anche scrittura, il rilievo volto, l’angolo precipizio, la struttura volta, la piega fauce, la nuvola pensiero oscillante, nella certezza che l’originale armonia plastica sia sempre sostenuta dal dono della poesia.
Quanto questo dono, unito a una sorprendente manualità, abbia guidato il viaggio interiore di Lorenzetti e Conte e il loro alfabeto formale imperniato sui concetti di volume, luce, spazio, indagati in opere geometrizzanti e semplificate, le mostre sottolineano con acribia, ripercorrendo, per decenni, con opere rappresentative, le strade battute nella seconda metà del ‘900, in una solitudine operosa che ha arricchito i ritmi sincopati delle superfici rientranti o sporgenti e la serrata dialettica del primo, la dimensione metafisica ma non simbolica del secondo, entrambi protagonisti di un sostanziale mutamento delle modalità di intendere il lavoro sulla tridimensionalità e sullo spazio. |
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