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In credito con lo Stato per circa 3 milioni, rischia la galera e il fallimento

25/11/2019



Ogni giorno ci capita di ascoltare le parole di politici di ogni schieramento, intenti a spiegarci l’importanza di aiutare le imprese, soprattutto nel Mezzogiorno, per favorire sviluppo e occupazione.
Non di meno ci sentiamo ripetere, sempre dai nostri rappresentanti in Parlamento, quanto sia indispensabile che lo Stato non opprima i cittadini e chi vuole investire. Ma la realtà, come spesso capita in Italia, è completamente diversa dai propositi che si susseguono e quello che sta succedendo ad un’azienda di Policoro ne è una chiara dimostrazione.
La ditta opera nel campo dell’edilizia e lo ha sempre fatto nel migliore dei modi: tanto è vero che è sempre stata molto solida ed è sempre riuscita a mantenere livelli occupazionali tra i 40 ed i 60 dipendenti. Questo fino a quando non ha avuto a che fare con lo Stato.
L’organizzazione è tale che i lavori che le vengono affidati sono ultimati sempre tempestivamente, ma non altrettanto si può dire per i pagamenti.
L’impresa lucana ha portato a termine lavori importanti per società grosse quali, per citarne solo alcune: il Gruppo Eni e Saipem nell’ambito di Tempa Rossa; e Raffineria di Taranto e Cmc Ravenna per lavori sulle tratte Palermo-Agrigento-Caltanissetta.
Quanto avvenuto in Sicilia, in cui lo Stato era committente, è noto alle cronache: il buco generato dal fallimento di chi era stato affidatario della posa in opera è stato di oltre 50 milioni di euro ma, tra le aziende titolari di subappalto e che non sono state pagate, c’è anche questa di Policoro che vanta un credito di circa 3 milioni di euro.

Dopo un incontro al Mise, con il Decreto Crescita era stato approvato uno stanziamento che impegna Anas a pagare, quale acconto, una prima tranche da 10 milioni di euro: ma nelle casse dell’azienda di Policoro ancora non è finito un centesimo.

E nel frattempo?
Chiaramente l’azienda è andata in sofferenza, la sua solidità le ha permesso di andare avanti mentre tante altre che hanno lavorato in Sicilia sono finite in bancarotta.
Ma sono passati già 3 anni e la situazione è chiaramente diventata sempre più difficile: ma si è sempre fatto in modo di evitare o limitare al massimo i licenziamenti.
E, per riuscirci, tra il non pagare gli stipendi o le tasse, è stato deciso di non versare parte di un tributo: si è pensato di compensare le accise sul gasolio.
Nella fattispecie, sapendo che non ci sono stati consumi, è stata ridotta di circa 200 mila euro la cifra corrisposta all’Agenzia delle Dogane in quanto, sulla base di dati certi, le sarebbe poi stata restituita la medesima somma.

Il sistema è del tutto simile a quello delle bollette della luce o del gas poiché, se non si dispone di contatori con autolettura e non si comunicano i consumi si paga un consumo presunto nell’attesa del conguaglio tuttavia, verificando, si è invece in grado di stabilire i consumi esatti.
Ma in Italia lo Stato può tranquillamente permettersi di non pagare, ma guai se i cittadini fanno altrettanto: e il risultato è stato un capo di imputazione per compensazione indebita, valso un processo nel Tribunale di Matera.
Non solo, ma poi è stato necessario anche fare i conti con qualche fornitore e in sede civile è in piedi la procedura di concordato preventivo.

Prima dell’aggiudicazione del subappalto in Sicilia, la ditta lucana contava in organico 63 collaboratori: oggi sono scesi a 18 e per il titolare, che ha sempre lottato per pagare i loro stipendi, c’è il rischio di finire in carcere fino a 6 anni, di pagare una multa di circa 800 mila euro e di fallire.
Tutto questo mentre è sempre in attesa di ricevere dallo Stato qualcosa come circa 3 milioni euro, che gli spettano di diritto e che, probabilmente, chissà quante volte avrà maledetto.

Gianfranco Aurilio
lasiritide.it






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