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“Le donne della merceria Alfani”, intervista a Carmen Pafundi

20/12/2014

– Lunedì 22 dicembre, alle ore 18.30 presso Casa Cava, l’appuntamento con "Basilicata. Generazione di donne" si arricchirà della presentazione del secondo libro di Carmen Pafundi “Le donne della merceria Alfani”. Una saga al femminile incredibile che proviamo a suggerirvi attraverso questa breve intervista all’autrice.

Carmen, se dovessi raccontare “Le donne della merceria Alfani” in poche righe.
Generazione di donne lucane, sei, ma che in verità sono "otto". La prima è la sorte, e non il destino, che le ha ricamate; poi viene la merceria stessa, la donna, nata da una costola della sartoria da uomo di Saverio Alfani: che la fondò, in un paesino del potentino, con la speranza di lasciarla al figlio maschio, che mai ebbe, né poté vederla comunque crescere, come sua figlia.
Come il capo di un filo, un ricamo da finire, dunque, essa passa da Saverio a sua moglie, Maria Carmela, la quale, perché non si sparli in paese, la muta da sartoria da uomo in merceria; e così da sua figlia Rosantonia, passa alla nuora Maddalena e a sua figlia Rosa, che nascerà daltonica, vorrebbe fare la maestra e lasciare la Lucania. Ma ancora la sorte, donna austera e apparentemente dispettosa, la costringerà a fare ritorno a casa, anzi in merceria, con una figlia adottata, ma che anch'essa… A seguire, nel tempo, fino all'ultima generazione, del nuovo secolo, tutte le donne della merceria Alfani avranno, loro malgrado, un motivo per non lasciarla, per tornare, varcare quella porta verde prato, sentirsi a casa solo in merceria, per rispettarla come una madre.

Questo è il tuo secondo romanzo, come è nata la passione per la scrittura?

Vale anche per me, autrice, quanto vale per le protagoniste della merceria.
Ho avuto anche io dalla sorte, forse anche con me poco clemente, un capo di filo nelle mani;
l'ho dipanato nel tempo, varcando porte che mi hanno immesso in esperienze diverse,
fatte di scelte anche involute: dal distacco dalla terra natia,
al comprendere e accettare cosa si ha e cosa si può fare, non fare, quando
si hanno delle difficoltà fisiche, perché nati prematuri… e poi ti definiscono disabile.
Così come sono, volevo fare l'architetto, ma mi sono laureata in Pittura.
E dipingere è come scrivere, e scrivere è un dipingere comunque. Ed io dipingo e scrivo, perché non so ballare!

Hai mai la sensazione che i tuoi personaggi ti sfuggano di mano?

Oh, ho la sensazione che ne sappiano più di me, che sappiano fin dall'inizio cosa vogliano che io scriva e come andrà a finire! Il loro è semplicemente un venirmi a trovare. Il lavoro di uno scrittore non è riduttivo ad un meccanico scrivere, quanto a un minuzioso ascoltare, mettere ordine nei loro chiassosi e confusi racconti, portarli alla quiete. Qualcuno è impertinente dall'inizio alla fine: penso a Maddalena Nelli, e qualcuno si è fatto precedere dal dolce suono della campanella, come il piccolo Saverio Conte.


Cosa diresti oggi a Rosa, Maddalena, Erica?

Grazie per avermi insegnato, così come se fossi andata a un loro corso di ricamo o cucito creativo,
lì in merceria, ad accettare la sorte; non come una donna semplicemente austera e tiranna,
ma come una madre severa, sì, che rimproverando, negando, a volte deludendo, comunque insegna, a fare come lei, a superarla, a dire grazie alla sorte.

Alla fine per te la scrittura cosa è?

Citando Pirandello, scrivere è come essere "un personaggio in cerca d'autore".
È un cercare, con fatica, io per prima, come un mio personaggio, qualcuno che mi dia sempre l'opportunità di non smettere di narrare, dunque di essere curiosa, apparentemente distratta, spesso sola.È altresì essere un'attrice e un attore: tanti personaggi, tante vite, tanti luoghi, non luoghi… È un mestiere, ovviamente un bel mestiere, forse troppo imitato, confuso con altro, oggi.
Scrivere, mi ripeto, non è un "meccanico pigiare tasti" sui pensieri. È, semmai, un farsi pigiare, noi autori, dall'emozioni, dal vissuto. È dunque un mettersi in gioco, anche se non ci si mostra al pubblico, o è farlo mostrandosi con le proprie difficoltà, in questa era del mero apparire ovunque, comunque. L'impegno, per quanto mi riguarda, è cercare di fare questo mestiere, così come avrei fatto l'architetto: bene sempre, o meglio, come se stessi facendo il più ripetitivo, a volte noioso degli esercizi fisici, i quali mi hanno messa in piedi, aiutato a camminare, se non come avrei dovuto e voluto, almeno meglio che posso. Buona vita. Carmen Pafundi






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