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Nicola Sole: un mitografo del Risorgimento italiano e dell’identità lucana

5/12/2024

Nella Fine di un Regno del 1894, Raffaele De Cesare lo definisce il più grande poeta del Regno napoletano. Tre anni dopo uscirà una nuova edizione dei suoi Canti, curata da Bonaventura Zumbini, e la comunità di Senise, dove era nato nel 1821, gli tributerà onori solenni, installando accanto al portone della casa natale una lapide. Sulla lapide una suggestiva epigrafe del filosofo e politico repubblicano pugliese Giovanni Bovio, che lo fa assurgere a protagonista del “secolo spiatore”, che più di altri seppe scrutare i disegni della Provvidenza o della Ragione immanente nella Storia e, in particolare, s’intende, il destino unitario del popolo italiano.
Secolo anche fatale per Nicola Sole, nel quale egli brucia e consuma non solo la sua passione patriottica e letteraria, ma anche la sua breve vita, che si dipana tra il “borgo natìo”, Senise, e Potenza e Napoli. Il poeta si spegne, infatti, sempre a Senise, l’11 dicembre 1859, a soli trentotto anni. I suoi ultimi versi nel canto Ad una stella (“... Ma poco, il sento, fermerò le piante /Di qua dei cieli peregrin romito: /Fra poco solcherò l'onda sonante /De l'infinito!”), dettati dalla consapevolezza della morte imminente, a causa della tubercolosi, omaggiano quella figura che era stata la parola d’ordine del movimento romantico, il simbolo della potenza della fantasia e del sentimento contrapposta ai limiti dell’intelletto, ma anche, per il giobertiano Nicola Sole, dell’intuito originario che lega gli esistenti all’Ente creatore: l’Infinito.
Al primo romanticismo appartengono i riferimenti, le “muse”, già trasfigurate in una sorta di mitologia metaletteraria, che spingono il giovane Sole verso i lidi, mai più abbandonati, della poesia: Byron, Foscolo, Leopardi, Manzoni. Una vocazione che deflagra con il 1848, l’anno in cui “i giorni han fatto vece dei secoli”, l’anno della “rigenerazione Europea”, come il poeta scrive nella prefazione de L’Arpa lucana. L’anno in cui la rivoluzione la fanno anche e soprattutto i poeti, gli artisti, les clercs moderni, e in cui la cultura è chiamata a militare, a plasmare e a risvegliare le coscienze delle nazioni, da rendere libere o da riunificare. È una mobilitazione imponente ed entusiastica, che tra i suoi frutti più elevati e ambiziosi annovera anche il progetto wagneriano dell’“opera d’arte totale”. E a Napoli si esprime anche attraverso “una nuova cultura religiosa, calda, fervida, sincera, non escogitata artificialmente”, come la definisce Benedetto Croce nella sua Storia del Regno di Napoli, che combina cattolicesimo progressista, idealismo filosofico e nazionalismo politico.
Con modestia ma generosa passione, Nicola Sole s’incanala in questa corrente.
Si mette in gioco come poeta “risorgimentale” e all’interno di questo perimetro rinnova la sua fede esistenziale nell’arte e nei suoi “uffici prestati in ogni rigenerazione politica”, fondendo la sua identità di poeta con quella di cattolico liberale. Dentro le risonanze di una melodrammatizzazione e di una poeticizzazione della politica che imperversa in Italia e in Europa, il poeta di Senise aggiunge la sua voce, canta la sua Italia “sì bella e perduta” e, soprattutto, la sua piccola patria, la Lucania, per fare dei suoi abitanti convinti patrioti.
L’Arpa lucana, che pubblica nel 1848 (“… in quell’anno o mai più!”), è una raccolta densa di canti patriottici, di ritratti delle genti lucane e di altre regioni italiane, pieni di encomio non affettato per le loro ataviche virtù, anche se non mancano esempi discreti di quella poesia intima, “sentimentale” e “non ingenua”, in cui “a parlare è più il poeta che la cosa stessa”, come l’aveva descritta nello Zibaldone il suo amato Giacomo Leopardi.
Sulla base dell’intuizione estetico-politica, perfettamente in linea con l’ideologia risorgimentale di Vincenzo Gioberti, a cui ha convintamente aderito, secondo la quale il risveglio civile dei lucani e dell’italianità può essere il “ricorso” storico degli antichi fasti della civiltà magnogreca, Sole forgia il suo manufatto poetico più raffinato, denso e accuratamente cesellato: Al Mare Jonio, compreso nella raccolta, e, forse, a tutt’oggi, poco indagato per la sua originale intersezione di stilemi classicisti e di élan vital romantico.
Nicola Sole diventa così un suggestivo “mitografo” del Risorgimento italiano e dell’identità lucana.
Sulle orme della complessa filosofia della storia del Primato morale e civile degli italiani di Gioberti, il Genius loci della Lucania è per Sole il genio italico stesso, che si è generato dalle spume dei mari che lambiscono le sponde calabro-lucane orientali e le isole dell’Egeo e che si è espanso, attraverso il cattolicesimo “cosmopolita” in Europa. È una Lucania sospesa tra il mito e la storia.
Ripreso da Sole stesso nella prima edizione dei Canti del 1858, che contiene il famoso “Salmo” per il terremoto del 1857, il carme Al Mare Jonio susciterà l’entusiasmo di Gino Capponi (il “candido” Capponi a cui Leopardi aveva dedicato la nota Palinodia), l’infaticabile animatore culturale fiorentino e fondatore dell’Antologia con Viesseux, come si riscontra dalla sua lettera del 25 settembre 1859, indirizzata al poeta lucano.
Ispirandosi a Berchet, Foscolo, Leopardi e Manzoni, il poeta di Senise aspira a essere parte integrante di quella “patria delle lettere” che coagula e amplifica le speranze per la “patria politica” in gestazione. E, in effetti, la lingua poetica di Sole (basti pensare alla descrizione dell’Appennino meridionale del salmo Pel Tremuoto in Lucania o del paesaggio mediterraneo sempre in Al Mare Jonio, con parole che alludono alla dimensione “ecologica” della cultura di un popolo) è uno di quei rivoli che, dopo la morte, avvenuta poco prima dell’unificazione italiana, si è riversato nel grande fiume della lingua poetica nazionale, come si può evincere dalle tracce soliane che gli studiosi hanno ravvisato in Pascoli e D’Annunzio, fino a giungere, per il tramite di queste mediazioni, agli esordi di Montale e di Pasolini.
Ancora oggi, nella letteratura critica che lo riguarda, manca una “riscoperta” della personalità culturale di Sole e della sua produzione poetica come la rielaborazione sincretica di influssi, tendenze, aspirazioni, entusiasmi, ideologici e artistici, dell’Europa del suo tempo, nell’arco di un ventennio (gli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento), a cui, non a caso, fa da pendant il cerchio ampio delle sue amicizie: Alphonse de Lamartine, Marc Monnier, Domenico Morelli, Giuseppe Verdi.
Con quest’ultimo Sole s’incontra nel 1858 a Napoli, dopo le delusioni per i falliti moti del Quarantotto e quando ormai le speranze risorgimentali sono consegnate alla “prosa” della diplomazia sabauda. A Napoli e alla corte del Regno, il poeta lucano è stato finalmente riammesso, in seguito alla piena assoluzione per i suoi reati politici legati alle vicende di dieci anni prima. In breve tempo, ridiventa il poeta più famoso del Regno delle Due Sicilie, anche per la sua imbattibilità come “improvvisatore”: un aspetto cha sarà stigmatizzato con severità impietosa da Francesco De Sanctis, dopo la morte del poeta, ma che andrebbe messo in sintonia con il gusto diffuso del primo Ottocento e i suoi nobili riscontri musicali negli “impromptus” schubertiani e chopiniani.
Le affinità elettive con il musicista di Busseto si concretizzano in un momentaneo, ma significativo connubio artistico. Giuseppe Verdi musica La preghiera del poeta di Sole e, in omaggio a Verdi, il poeta lucano scrive, in occasione della sua partenza dalla città partenopea, l’ode Addio a Giuseppe Verdi, che sarà pubblicata nella raccolta dei Canti del 1858, i cui proventi saranno devoluti alle vittime del terremoto in Basilicata dell’anno precedente.
Verdi è nel pieno della sua maturità artistica. E' reduce dai successi della “trilogia popolare” – cioè del trittico “Rigoletto”, “Trovatore” e “Traviata”- e alle prese con la tormentata vicenda della rappresentazione del Ballo in maschera al Teatro S. Carlo, di cui avrà sicuramente offerto qualche anteprima agli amici Nicola Sole e Marc Monnier, durante i loro “salotti” serali a Napoli. La romanza per canto e pianoforte composta da Verdi in omaggio a Sole testimonia probabilmente non solo uno scambio di stima e di gentilezze tra due amici e artisti, ma anche l'adesione sincera e intima di Verdi al piccolo “manifesto” di estetica di Nicola Sole, che poteva essere così diffuso anche nella versione lirico-musicale oltre che poetica. Ne La preghiera del poeta, Nicola Sole affida a Dio, simbolo e autore della Provvidenza nelle vicende storiche e umane, il successo della sua vena ispiratrice, la destinazione della sua fantasia poetica, la sua stessa missione di poeta.
Nonostante i “compromessi” contingenti con il regime borbonico, risalenti a quella data, in questa visione apparentemente conformista e “neutra” Sole ripropone in filigrana la sensibilità romantica e religiosa nonché l’anelito “nazional-popolare” che avevano intonato l’Arpa lucana, e che Verdi seppe cogliere e volle valorizzare. Solo “in grembo a Dio”, come recitava una poesia del 1848, ovvero nella fede cristiana e nei suoi valori, possono incontrarsi bellezza e verità, l'arte poetica può assurgere a elemento edificante della civiltà di un popolo e di una nazione, può tenersi salda quella “invenzione del Vero” a cui Giuseppe Verdi, in una lettera a Clara Maffei, confesserà di restare ancora fedele nel 1876, quando andava ormai di moda il “copiare il Vero”.
Poco prima della morte prematura, Sole si riposiziona decisamente sulla scia del romanticismo cristiano di origine francese, di Chateaubriand e di Lamartine, del quale ha sicuramente fatto suo, nella breve ma appassionata esistenza, il motto: “Aimer, prier, chanter, voilà toute ma vie!”


FRANCESCO BELLUSCI
Professore di filosofia e storia
Liceo classico “Isabella Morra” di Senise (PZ)



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