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Da Napolitano a Colombo: la lunga querelle tra Riforma Agraria e industrializzazione in Basilicata

16/05/2023

Negli anni in cui si discuteva dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, in Basilicata i comunisti orientavano la loro battaglia politica per la difesa delle autonomie locali contro lo svilimento che la Cassa operava su un già gracile tessuto democratico. Su questo punto si riallacciava la lezione di meridionalismo democratico di Giorgio Amendola che ispirò il suo discorso contro l’istituzione della Cassa.

Amendola, allora segretario interregionale del PCI per la Campania e la Basilicata, affermava che la strada per la soluzione della questione meridionale fosse «quella di permettere alle stesse popolazioni meridionali di operare il rinnovamento e il progresso economico di quelle regioni» e più avanti continuava affermando che gli ampi poteri finanziari ed esecutivi di cui la Cassa era dotata, rischiavano di farne «un centro di influenza e di corruzione al di fuori di ogni controllo, destinato ad esercitare nella vita meridionale funzioni preminenti, a diventare come un governatorato dell’Italia meridionale» (cfr. Nino Calice, Il PCI nella storia di Basilicata).

Affermazioni forti, ma che colgono quello che era il sentire di una parte della popolazione lucana, quella appunto che si riconosceva nel PCI. Sempre in Nino Calice si legge che la relazione del Comitato Federale al IV Congresso del PCI di Potenza, agli inizi del 1951, esordiva denunciando la politica governativa che non aveva «fatto che aggravare i problemi della provincia», la quale si presentava come ai tempi delle pesanti accuse di Fortunato e Zanotti-Bianco. Scrive Calice «alla radice del permanere di tale situazione che con neologismo di conio americano è stata classificata area depressa, c’è la mancata realizzazione della riforma agraria che...avrebbe cambiato il volto e la struttura economico-sociale della regione...invece la DC con la Casmez (Cassa per il Mezzogiorno) e con la legge stralcio si mette sulla vecchia strada peraltro con inusitata e sfrontata violenza demagogica». Ma qual era questa “vecchia strada” a cui allude Nino Calice? Quella dei lavori pubblici e degli interventi legislativi speciali, eludendo quelle che erano le ragioni storiche e politiche che avevano determinato una tale situazione.

In sintesi era la strada che intraprese la DC per creare e consolidare il proprio potere. E qui risiede anche l’errore del PCI, in quanto si rileva come i tradizionali strumenti di organizzazione delle masse e di intervento nelle lotte sociali e politiche fossero inadeguati a cogliere quelle che erano le trasformazioni in atto e restassero come una posizione di stimolo, di denuncia delle insufficienze e dei guasti della politica democristiana, ma niente di più. Il partito sembrava come concentrato soltanto alle aree più povere dell’interno, sui drammi dell’emigrazione di massa e dello svuotamento di interi paesi, sulle masse povere e disoccupate.

In tal modo il dibattito e l’iniziativa politica per lungo tempo ristagnarono intorno a posizioni difensive, di difesa di poveri ed emarginati, di rivendicazione di un costume e di una pratica democratica di massa che non potevano non nascondere un orientamento di fondo ispirato ad una vera e propria ideologia delle occasioni mancate e dell’attesa. Quello che mancava al PCI per contrapporsi al blocco guidato dalla DC, a detta di Nino Calice, era la consapevolezza di battersi per imporre la riforma agraria, miglioramenti salariali e lavori pubblici per i disoccupati. Anche perché, come riconobbero i comunisti materani, in questo periodo la DC non era rimasta a guardare in quanto, ad opera di agrari, enti di riforma e camere di commercio aveva messo in atto una vera e propria operazione di tipo monopolistico e si proponeva di mettere le mani sul mercato, assoggettando gli interessi di medi e piccoli coltivatori.

Possiamo dire che in questo periodo veniva a maturazione in Basilicata la tendenza a controllare i processi di sviluppo e politicizzazione di massa, attraverso una scelta politica esplicita di industrializzazione che mirava a relegare nella marginalità sociale e culturale - si infittiscono le accuse di ruralismo nei confronti del PCI - ipotesi di sviluppo agricolo diffuso e associato, proposte di riequilibrio dei rapporti civili e di potere fra città e campagne.
In concomitanza con le proteste e gli scioperi di massa per il metano che si tennero nel febbraio 1961 si tenne alla Camera dei Deputati un interessante dibattito sui rapporti fra programmazione economica e ruolo dell’intervento straordinario. Per il PCI prese la parola Giorgio Napolitano, il quale denunciò quanti consideravano chiuso il capitolo della riforma agraria nel Mezzogiorno ma, nello stesso tempo, invitò il Governo a procedere all’allargamento del mercato meridionale anche attraverso un vasto processo di industrializzazione. Il discorso conclusivo per il Governo, invece, lo tenne Emilio Colombo il quale, dopo aver esaltato «l’azione di rottura delle vecchie strutture feudali compiuta dalla riforma agraria», sostenne apertamente che poco era possibile fare per le zone interne e collinari i cui processi migratori, tra l’altro, potevano essere valutati positivamente dal momento che in quei territori «ogni unità di lavoro verrà a disporre di una più vasta superficie di terra». Secondo il politico potentino soltanto un orientamento delle Partecipazioni Statali, sia in direzione di una politica di sviluppo e sia in funzione antimonopolistica, poteva offrire sbocchi lavorativi alle popolazioni dell’interno. E citò prima il nucleo industriale di Potenza e poi quello della Val Basento come esempio di un felice rapporto fra politiche di sviluppo del capitale pubblico e offerta di lavoro per le aree interne.
In realtà, poi, le cose andarono un po' diversamente, in quanto gli investimenti nel decennio che si aprì con la scoperta del metano nel sottosuolo lucano si concentrarono per la maggior parte nel campo dell’industria chimica assorbendo il 60,09 per cento delle agevolazioni pubbliche. Conseguenza di ciò fu che, con un elevato tasso di emigrazione e l’abbandono di ogni politica di intervento per le aree interne, i processi migratori e di inurbamento non furono regolati da una crescita normale di occupazione in altri settori. Si formarono, anzi, sacche imponenti di sottoccupati, di lavoratori marginali che premevano sul mercato del lavoro i quali, quando non emigravano, cercavano sbocchi nei lavori pubblici, di forestazione.
La verità è che, non solo l’occupazione complessiva calò, ma nella stessa zona della val Basento a più intensa industrializzazione, mentre le fabbriche assorbivano operai, lo stesso non avveniva in agricoltura, e questo in una zona dove si sarebbero potute sollecitare permanenze in agricoltura e integrazioni di reddito. Inoltre l’assenza di collegamenti tra l’industria e il resto della struttura economica regionale era evidente anche nella ridotta partecipazione del capitale locale alle attività imprenditoriali o nella sua presenza in settori marginali. Ulteriore segno quest’ultimo, qualora ne servissero di ulteriori, di un approccio verticistico nella pianificazione economica regionale che non aveva integrato al suo interno le popolazioni locali ma, al contrario, le aveva tagliate fuori dal sistema relegandole a mero strumento esecutivo di decisioni che prescindevano dalla loro volontà.

Nicola Alfano



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