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Tra storia del teatro e teatro al tempo del Covid, intervista a Irma Immacolata Palazzo

18/01/2021

La fortuna di una vita è senza dubbio legata agli incontri e all’incontro con i grandi Maestri e Irma Immacolata Palazzo è stata e continua ad essere nella mia storia personale,  un grande esempio di Donna e d’Artista. Di origini pugliesi-slovene, Irma Immacolata Palazzo è una scrittrice e regista la cui ricerca umana e artistica è sempre stata protesa verso la ricerca dell’Autentico nel senso più elevato del termine. Un autentico che si riverbera splendente in tutte le sue opere, caratterizzate dalla ricerca della bellezza e del vero. Un teatro quello di Irma Immacolata Palazzo in cui ogni gesto, oggetto o pausa, ogni sospiro, ogni non detto, sono specchio dell’animo dei personaggi e dei suoi meandri piu’ nascosti a voler scuotere la coscienza dello spettatore attraverso la “denuncia” di una bellezza e di una verità complessa che troppo facilmente scivola e si perde, quasi impercettibilmente, dietro la nebbia e la distrazione della vita moderna e dei suoi inganni. Un teatro pregno di studio e di ricerca quello di Irma Immacolata Palazzo, denso di quella tensione filosofica e letteraria che mira alla ricerca di una “essenza” che solo grandi autori come Dostoevskij e filosofi del calibro di Nietzsche, sono stati in grado di  farci respirare nelle altitudini dei loro scritti.


Tanto ci sarebbe da dire sulla personalità e la vita di Irma Immacolata Palazzo, tanto che diversi studi e tesi di laurea vi si sono soffermati. Mi limiterò a stender cronaca sul suo essere stata collaboratrice dell’immenso Carmelo Bene, colonna portante del teatro, della storia del teatro, dell’antropologia e della filosofia  del teatro mondiale; ma  la Palazzo è stata anche compagna di vita e d’arte, nonché  moglie, di uno dei più grandi attori italiani del teatro del ‘900: Cosimo Cinieri, che ricordo con immensa commozione e struggente, grato affetto.


Un’intervista generosa quella che segue, in cui Irma Immacolata Palazzo ci parla della sua vita nell’arte, del suo spettacolo sul Filosofo Friedrich Nietzsche, di Carmelo Bene e Cosimo Cinieri.

Filosofia e teatro un connubio interessante che lei è riuscita a congegnare in uno spettacolo sul filosofo Friedrich Nietzsche ora su Raiplay, ospite del estival T.E.I.M.T. Come nasce l’idea?
La videopera Cosimo Cinieri in Nietzsche, tra Dioniso e Apollo-Ditirambi di Dioniso e altre poesie è stata ospite di T.E.I.M.T., il primo festival in streaming dedicato al movie theatre, dal 2 al 31 dicembre 2020; la direttrice Isabel Russinova ha voluto dedicare un omaggio a Cosimo, scomparso un anno fa. Lo spettacolo nasce nel 2015 nell’ambito della 2°Edizione del Festival itinerante Le Rose del Parnaso organizzato dalla mia associazione culturale. L’idea di portare la filosofia a teatro non era nuova; già nel 2011 portammo in scena SOCRATE, IL TAFANO, tratto dai Dialoghi di Platone e quindi un’opera di prosa, questo Nietzsche invece segue il nostro percorso sulla Teatralizzazione della poesia, che dal 1978 ha prodotto più di 30 Concerti di Poesia&Musica, in tournèe nei maggiori teatri italiani, auditorium, piazze, aule magne e all’estero. L’opera omnia del grande filosofo fu un dono di compleanno del mio maestro Carmelo Bene; nell’estate del ’79 eravamo suoi ospiti in Versilia mentre scriveva l’Otello con Cosimo. Fui ben contenta di essere iniziata, perché non passava giorno che lui non ci facesse “‘na capa tanta” con i temi nicciani: l’Eterno Ritorno dell’Uguale, Volontà di potenza, Superuomo e Morte di Dio e alcuni corollari sulla filosofia schopenhaueriana. Poco più che ventenne, rimasi stregata per la vita. E quando ho conosciuto il filosofo Lucio Saviani, anche straordinario performer, è scattata l’urgenza di portarlo in scena. Nella II parte di Così parlò Zarathustra, Nietzsche si definisce poeta, dove ‘narr’ ha parecchi significati oltre che giullare: matto, stolto, stupido, buffone. E dunque: istrione, attore –colui che indossa la variopinta maschera- che simula, e che, in virtù della spersonalizzazione, sa operare una distruzione attiva del soggetto. Calasso ci ricorda che per tutta la vita, Nietzsche pensò attorno al teatro, e con Ecce Homo e l’irrompere di una selvaggia teatralità, si trovò di fronte all’imperativo di praticarlo. Soltanto giullare! Soltanto poeta! non filosofo, così Nietzsche parla di sé. Commediante. O matto. I Ditirambi di Dioniso è l’ultimo testo che Nietzsche diede alle stampe prima di consegnarsi pazzo all’eternità, sebbene la poesia sia disseminata in tutta la sua opera. Prima di varcare l’ultimo confine sceglie il canto (caro ad Apollo, dio della divinazione che discende dalla follia); poesia in forma di ditirambo. Il ditirambo è la forma corale che prelude alla tragedia. La c’è Dioniso. Il dio dell’ebbrezza, con cui si condivide l’eterno dir di sì al nonsenso della vita. Giorgio Colli ci rammenta che un geroglifico arcaico raffigura Apollo con l’arco e la lira, suoi attributi che ricordano le corna di un capro, animale sacro a Dioniso. Poesia e follia appartengono ad Apollo, noi, autoinvitati al banchetto celeste, dobbiamo, però, farci trovar pronti come iniziati, visto che alla sua tavola si mangia Zagreus-Dioniso smembrato. Nella tragedia, infatti, DIONISO parla per bocca di APOLLO. Il cerchio si chiude. Non è poco per chi è sempre stato s-centrato come Nietzsche. Inattuale, come più volte ha rimarcato lui stesso. Fuori del suo tempo. Eccentrico arlecchino.


La nostra performance tra poesia-filosofia e teatro inizia e finisce con una risata. Risata e danza, strumenti d’elevazione, quasi un distico sacro per Nietzsche, figure della leggerezza e insegnamento capitale nello Zarathustra. Solo il saggio, l’uomo leggero, l’oltreuomo sa ridere della tragicità dell’esistenza, pur vivendola fino in fondo, l’unico che sa accettare l’estrema visione dell’eterno ritorno e che danza al tramonto tra il cielo e l’abisso. Profeta della solitudine. Principe uccel di bosco. Siamo nella sfera dell’Artistik, come lui la chiamava, più vicina alla vita dell’acrobata, del funambolo, il primo doppio di Zarathustra che a sua volta era doppio di Nietzsche. Una vertigine.


Il palcoscenico è una scacchiera in cui gli elementi sono proiezioni l’uno dell’altro (specchi); ensemble che obbedisce comunque alla legge dell’”arte monologica”. Ogni entità è un commediante che gioca da solo: il giullare-voce recitante COSIMO CINIERI; il filosofo LUCIO SAVIANI, sulla cui scrivania s’intravedono i tre fatidici dadi, che affabula i temi/archetipi nicciani: Labirinti e naufragi, il Gioco/Metamorfosi, Il Tempo/l’Attimo, il Mediterraneo, il Viandante, l’Ombra; il pianista-orchestratore DOMENICO VIRGILI con seducenti echi di: Chopin, Liszt, Stravinskij, Bizet, Wagner, Faurè, e accenni di canzoni napoletane; il musicista PEPPE FRANA con gli strumenti a plettro (cuore appassionato); la danzatrice SALUA/Arianna, padrona eppur perduta (come Nietzsche la immagina) nel proprio labirinto. Insondabile femminilità, ‘squassata da febbri ignote’ per il suo ‘Dio carnefice’ Dioniso, dalle piccole orecchie che sa odiare e amare a un tempo. Arianna, doppio di Cosima Wagner, a cui Nietzsche scrive uno degli ultimi biglietti della follia: Arianna/Ti amo!/Dioniso. Ma quel rapporto è anche metafora della relazione tra l’artista e la propria opera.


Ci piace ricordare alcune note di Maria Antonietta Nardone: “Da questa profondissima intuizione drammaturgica e registica di Irma Immacolata Palazzo, questo spettacolo segna l’inizio di un teatro affabulatorio di matrice filosofica, saggistico-filosofica. Dove la filosofia incontra il teatro, si fa ed è teatro, pur restando profondamente ed essenzialmente filosofia. (…) Questa prova luminosa potrebbe innervare il teatro italiano contemporaneo di una potente ed insperata vitalità. (…) Cosimo Cinieri, in stato di grazia. L’attore si fa formidabile strumento vocale che modula toni, armonie, ritmi ora esuberanti ora più raccolti. Attraverso la sua superba recitazione ho sentito l’acqua del ruscello che sbatte sulla pietra e la vastità del deserto quando ammonisce: “Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti!”. Ho visto soli e “ghiacci ardenti”, mari e montagne, “nubi tempestose” e “giocondi spiriti liberi”, maschere e “cuori ferventi”, abissi ed enigmi, tremori ed ebbrezze”, “arcobaleni di bugie/tesi tra falsi cieli”; ho visto l’aquila piombare “con volo dritto” su agnelli ignari, ecc. Un delirio portentoso, estatico e convulso, che suggella ossessivamente ad ogni strofa, dopo quella sarcastica domanda “pretendente della verità –tu?”, la disarmante risposta “soltanto pazzo, soltanto poeta”, cantilenata come un mantra

Irma Immacolata Palazzo, regista e Anima del teatro italiano degli ultimi anni, compagna di vita e d’Arte del grandissimo attore Cosimo Cinieri, scomparso un anno e mezzo fa lasciando un vuoto sulla scena italiana. Chi era Cosimo Cinieri? E com’è stato aversi compagni d’Arte e di vita?
Cosimo era un aristocratico, aveva un’anima aristocratica.  Tanto per rimanere in tema, Nietzsche definisce l’uomo di specie nobile come colui che sente se stesso come determinante il valore, che non ha bisogno di riscuotere approvazione. Sta in primo piano per lui il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare.  Fede in se stesso, orgoglio di sé, questi gli attributi, e quasi un disprezzo per tutto ciò che è meramente utilitaristico. Ho visto Cosimo recitare con lo stesso entusiasmo per una platea di settemila spettatori a Caracalla o per dieci, al Centro sociale Angelo Mai, che gli aveva chiesto una replica di Canzoniere Italiano.  Ma non si è mai sdato. Tanto per raccontarne una, e vi assicuro che ce ne sarebbero a decine: nel 1986 fu chiamato dal Teatro della Toscana per fare compagnia con Renato Rascel e Walter Chiari; invece di proporgli il nome in ditta con i due mostri sacri, gli offrirono la partecipazione straordinaria. Rifiutò. Niente compromessi. Per Nietzsche tutti i creatori sono duri, questa è la natura dionisiaca…


Chi era Cosimo? Lo lascio dire a lui: “Cosimo vuol dire ordine perfetto e Cinieri, guardiano di cani. Quindi io sono capocomico per destino E se non bastasse c’è il mio anagramma, Cosimo Cinieri “noi comici seri”. “Io mi devo divertire, voglio giocare…” sempre ribadiva Cosimo. Inneggiava alla serietà che i fanciulli mettono nei giuochi, direbbe ancora Nietzsche. Giocare, appunto –alla maniera del fanciullo eracliteo- che crea e distrugge a un tempo in un incessante trasformarsi, nel volersi sempre come crisi, discontinuità, divenire. Tradirsi sempre, continuava, per morire e rinascere.


E: “Io non faccio l’attore, sono un attore…Anzi, un rapsodo. Molti recitano i versi, altri li leggono: io cerco di viverli, tento di essere il pensiero nascente del poeta, di ritrovare la sua emozione per diventarne il detonatore. Come mi disse una volta Mario Luzi, la cosa più importante è comunque trattare la poesia in modo ludico, non luttuoso”. Da molti anni non voleva più fare teatro di prosa, ma soltanto Concerti di Poesia, che naturalmente il mercato guardava con una certa riluttanza. I nostri Concerti erano dei mandala: mesi di preparazione per poi bruciarli a volte in una sola serata. Cosimo era indomabile: ‘La poesia è l’arma segreta per cambiare il mondo’. E per questo amava incontrare centinaia di ragazzi, chiedendogli di lasciare una testimonianza dopo lo spettacolo. Dei tremila pizzini raccolti, ne portava gelosamente qualcuno nel portafoglio: “Se tutti i viaggi fossero così, non tornerei più a casa”; “Mi fa amore”; “Non credevo che una poesia potesse travolgermi come una canzone di Vasco Rossi”; “Non pensavo potesse piacermi e non ho parole per descrivere l’emozione”; “Cosimo! Per te ho sprecato pure una cartina. Grazie a te ho capito la poesia”.


Amava la vita, Cosimo. Ogni sera, prima di andare a dormire, socchiudendo la tenda della finestra che dava in giardino, esclamava gioioso: Ciao, mondo. Brandelli di interviste: “…quando mi volto indietro mi dico: va bene, è andato tutto bene. La vita è così difficile… forse perché ci si arrovella tanto nel cercare la felicità. Così si dimentica una cosa molto più importante: non conta essere felici, ma essere e basta, essere ciò che si è. Se ci riesci anche per un solo secondo, allora hai ottenuto un risultato straordinario”. “Siamo irrilevanti su questo pianeta, viaggiamo nel vuoto intorno a una stella nana. Tra noi e un filo d’erba non c’è differenza: la vita è una meravigliosa precarietà. Tutto il resto è società”.


E amava la sua Terra, la Puglia. Durante la lavorazione del film Pizzicata di  Edoardo Winspeare (1994), rilasciò un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno: “La Puglia, ovvero le Puglie, questo territorio così lungo, così diversificato nella lingua, nei panorami, nelle culture. Da lontano la guardo vivere, la sento parlare, m’incuriosisce, m’intenerisce, mi dà un senso di appartenenza forte. Un viaggio, dalla faringe al naso. Fonicamente la Puglia è questo. I dialetti del “Nord” chiusi nella gola, la bocca si muove poco, le sillabe risuonano in profondità, si stringono e si ripiegano su se stesse; poi, più a “Sud”, salgono nella bocca, si amplificano, prendono aperture inusitate, il volume aumenta, suoni quasi sguaiati, aggressivi, comunque coinvolgenti per ampiezza e una strana nota di comicità; e ancora più a “Sud”, la voce sale piano attraverso il naso, si ingentilisce, un suono gradevole, delicato, educatamente comunicativo, dolcemente musicale, per spegnersi poi nel mare, nelle onde che ci accompagnano lungo la litoranea nel loro viaggio verso gli altri popoli del Mediterraneo. Comunque, una Grande Madre. (…)”.


In un ATTIMO io&te ci trovammo e fu per sempre. Ho conosciuto Cosimo nel 1974, al Purgatorio, un cabaret-dopoteatro di Bari, mentre era in tournèe con il S.A.D.E. di Carmelo Bene, di cui fu memorabile coprotagonista. Cosimo era già un attore-autore-regista conosciuto (proveniva dall’Avanguardia teatrale degli anni Sessanta con Quartucci, Bene, Leo De Berardinis) e apparteneva a una grande famiglia del sud: suo nonno materno, Luigi Viola, ha fondato il Museo nazionale archeologico di Taranto, suo zio è Cesare Giulio Viola, celebre drammaturgo e sceneggiatore con De Sica e Zavattini (Oscar per Sciuscià), suo padre, uno dei primi chirurghi del sud. Io, nessuno, e per giunta, minorenne. Digiuna di teatro. Non di vita, però. Con l’incoscienza e il coraggio della giovinezza, dopo un anno era già pronto il mio primo testo: La Beat Generation-da una lettura in periferia dei versi e della prosa di Burroughs, Corso, Ferlinghetti, Ginsberg, Kerouac, McClure. E Cosimo, generoso, mi concesse il nome in ditta (Io ti ho intuita, diceva di me). Formiamo quindi Compagnia percorrendo tre strade parallele di ricerca: la reinvenzione dei classici (tra cui Macbeth, Biglietto d’oro ’85), la drammaturgia breve (30 Atti Unici in Repertorio Variabile); la teatralizzazione della poesia, con formazioni musicali dalla sinfonica al jazz, alle bande militari (Carabinieri, Esercito e Finanza). Un repertorio che spazia da Dante a Leopardi, da Garcia Lorca a Pessoa, Adonis, Pasolini, ecc. All’attività teatrale della Compagnia Cinieri&Palazzo, Cosimo alternava partecipazioni in produzioni cinematografiche, televisive e radiofoniche, dedicandosi inoltre a stage di recitazione e psicotecnica. Quarantacinque anni di avventure, perché vita e arte mai furono scisse. Che dire? che sono ancora allucinata per la sua perdita, che vedo fantasmi ovunque, che dormo con le sue ceneri accanto e mi sento protetta, che non so se voglio ‘girare pagina’, che ogni tanto mi rimbombano in petto i versi di un suo conterraneo, Diodato:  “Che fai rumore qui E non lo so se mi fa bene Se il tuo rumore mi conviene Ma fai rumore, sì Ché non lo posso sopportare Questo silenzio innaturale Tra me e te (…)”.

Qual è il futuro del teatro, in vista del nuovo approccio che il momento covid sta creando anche rispetto alla fruizione e alla relazione attore/spettatore?
Azz, il futuro del teatro?! Sono anni che il teatro non ha futuro. Dal 2014 in poi ha vinto la burocrazia. E la sinistra ha la colpa maggiore, mi dispiace dirlo. Ci sguazzano. La burocrazia è un potente mezzo di controllo e ti lega le mani.


Infatti, siamo diventati un numero di pratica e sarà sempre peggio. Gli artisti? banditi; messi al bando. Nel 2014, fresca di nomina incontrammo la Barca, l’allora assessore alla Cultura del Comune di Roma che tirò fuori l’alibi della trasparenza: le cose stanno per cambiare: niente più discrezionalità, niente più contributi diretti, ma bandi. Per parteciparvi, creai l’Ass.Culturale. Il bando dell’Estate Romana 2014 fu burocraticamente complicatissimo (90 pag. da presentare!), una vera follia, tanto che l’assessore Barca saltò in aria proprio per quel bando.


Nel 2015 il Ministero fa fuori i ‘piccoli’, i privati, tra cui decine di Compagnie storiche (150 e passa ricorsi) per privilegiare gli Stabili che si ospitano a vicenda. Pian piano, parole come ‘ricerca’ e ‘sperimentazione’ spariscono.  I burocrati chiedono quell’anno di compilare 90 pagine incomprensibili. Nel mio piccolo ormai ho 4 persone di amministrazione: commercialista, consulente del lavoro, consulente per interpretare i bandi, amministratrice di Compagnia e faccio debiti con la banca per anticipare le spese di allestimento. Negli anni seguenti la situazione peggiora: rincorsa ai bandi che ti sfiancano: a uno non puoi partecipare, perché ci vogliono sette anni di attività, a un altro ancora vogliono tre anni di bilancio, un altro vuole bilanci non passivi. Da uscire pazzi. I miei 40 anni di attività non servono a niente se non rientro  nelle loro griglie, nei demenziali parametri. Nel 2016, ho dovuto aspettare sette mesi prima di sapere se avevo vinto o meno quello della Regione Lazio! Lo vinsi, ma fui costretta a rinunciare, perché ti davano diecimila euro ma ne volevano undici di contributi. E sulla linea di partenza ci sono tutti appassionatamente: professionisti, artisti amatoriali, associazioni che allevano trote, cooperative di architetti, di archeologi, Fondazioni private, l’Università, L’Opera!!! basta che sullo statuto ci sia scritto: spettacolo dal vivo. Per ricevere cosa? tremila euro, diecimila, massimo venti. Nel 1983 il nostro Macbeth costò 150 milioni di lire, la Provincia me ne dette 50, presentando una sola paginetta di progetto. Ma per favore. E infatti sono anni che è saltato fuori quello che io chiamo ‘il teatro delle sedie e dei cappotti’: niente più scene né costumi, in palcoscenico soltanto sedie in circolo e cappotti appesi. Tutti zitti, però. Si accontentano. E allora. A Franceschini interessano più i morti che i vivi, difatti la maggior parte dei soldi finisce ai musei.


E poi da anni ci sono questi novecentonovantanovemila canali. Film, documentari, tavole rotonde su ogni argomento a tutte l’ore. Ma chi si mette più in macchina: traffico, parcheggio inesistente, code, freddo, pioggia per andare a teatro (ancora molto caro per una famiglia) o al cinema? Patatine, birra, pantofole e tutti davanti a Zeus 4K da 370 pollici o giù di lì… E infine arriva il Covid. Bingo. Dapprima timidamente (i musicisti lo faranno alla grande connettendosi da ogni parte del globo), cominciano a dare in streaming Conferenze, Happenings, e poi Festival, proiezioni, su diverse piattaforme, alcune nate proprio per sopperire alla mancanza dello spettacolo dal vivo. Addirittura la televisione generalista colma la lacuna e in prima serata e addirittura di sabato con Ricomincio da Rai3 concede quattro puntate agli attori di teatro (soprattutto monologhi), musicisti e danzatori. Cos’è, un contentino? Perché solo 4 puntate? Perché, pagando pure un canone coatto, dobbiamo sorbirci ore e ore di TV kitsch che manco negli anni democristiani? Almeno un giorno la settimana dovrebbe essere doveroso per il servizio pubblico offrire una ribalta al teatro. Certo, lo spettacolo dal vivo non può essere sostituito, ma una vetrina televisiva è assolutamente indispensabile. Carmelo Bene reinventò il mezzo. E dopo? chi ha dato altre opportunità ad altri artisti? Z-E-R-O. In vista dei quasi 300 miliardi del Recovery Fund che devono arrivare, leggevo interviste a economisti, filosofi, stilisti, scrittori, registi, architetti, imprenditori, fisici, ingegneri aereospaziali, ecc: stupendi progetti ci sono per la rinascita (tra l’altro: riformare l’assetto istituzionale –Parlamento, Governo, Regioni- Autonomie locali-; delegiferare; semplificare; smantellare l’apparato burocratico-ministeriale che rende impossibile trasparenza, rapidità efficienza, responsabilità (queste sono parole di Cacciari); e poi investire nella ricerca penalizzata da anni; nella tecnologia; fare impresa pensando ai prossimi cento anni, ecc ecc ecc). Perché i nostri politici non pensano a una task force con questi cervelli? Io, dentro, ci metterei pure un tassinaro, perché loro hanno una qualità che ai politici manca: il buonsenso.

Irma Immacolata Palazzo è stata assistente e stretta collaboratrice di un Genio assoluto del teatro del 900: Carmelo Bene. Cosa ha significato per lei respirare una personalità così vasta e complessa come quella di Bene?
Un vero maestro è un maestro cattivo. E poi me lo sono scelto io e mi stava bene così, se mi si consente il gioco di parole. Carmelo è stato per me un maestro zen. Come poteva diversamente? Era inflessibile, rigoroso, maniacale con se stesso, figurati con chi gli si avvicinava. Donna, per giunta. Ma non mi ha mai offesa in quanto donna, l’avrei mandato affanculo. E lui, psicologo finissimo, l’aveva capito. Eh, ma non era uno scherzo lo stesso. Ho passato ad ascoltarlo quotidianamente 5,6 anni: ore e ore al ristorante o a casa sua; ore e ore a seguire le prove dei suoi spettacoli; ore e ore a prendere appunti. Per un anno non ho visto la luce del sole, perché lui era Dracula, viveva di notte a lume di candele carissime comprate in un negozio particolare che serviva il Vaticano, perché per lui la qualità era fondamentale in ogni dettaglio. Carmelo, tra l’altro, aveva una memoria prodigiosa, non solo citava pezzi di Joyce o Cechov o di tremila altri autori con verve appassionata, ma ricordava perfino la pagina da cui erano estrapolati.  Sono stata sua assistente in Otello e Manfred.  Con l’Otello, che veniva dopo la mia Beat, che aveva riscontrato consensi unanimi tra i critici più autorevoli, ebbi un attacco di hybris: siccome lui voleva darmi il minimo sindacale, lo rifiutai –mancia, gli dissi- costringendo Cosimo/Jago a pagarmi tutta la tournèe. Sicuramente pensò di me che fossi cretina: l’orgoglio, per lui, era legato soltanto al suo fare, al diventare ciò che si è (Nietzsche docet). Comunque, fu una lezione anche quella, insieme alla magra consolazione di vedergli stappare in mio onore qualche bottiglia di champagne, spero per il senso di colpa, perché ero infaticabile e ‘bravissimissima’: ass alla regia, fonico, attrezzista; non per niente, oltre che pugliesi, ho –da parte di madre- origini austroungariche. Volevo rubare il mestiere bruciando le tappe. Tanto brava pure per lui da meritare subito dopo, nel Manfred, la stessa paga con cui retribuiva i tecnici più anziani. Cattivo, perché senza pietà ‘ti buttava a mare’, ti sfidava in cerca di verità; ti metteva alla fine davanti al tuo specchio. Come ho detto prima, durante l’Otello pigliavo appunti appunti appunti. Lui, sornione, mi guardava di sottecchi e un giorno mi fa: domani vai in studio a montare la colonna sonora (sottotesto: mò voglio vedere a che servono quei tuoi begli appunti scritti con le penne blu, rossa e verde). Alè, bella responsabilità. Aveva usato una piccola orchestra e per fortuna quegli appunti, che pensavo servissero solo a me, mi tornarono utilissimi: qui abbassare il violino, là mettere sullo sfondo la viola ecc ecc. BBBRRR. Ancora li conservo.


Pippo Di Marca, attore, regista e studioso di teatro titola il suo contributo per Travaglione, il libro che sto preparando in memoria di Cosimo, I 4 del’Apocalisse, riferendosi ai 4 protagonisti dell’Avanguardia teatrale degli anni ’60: Carlo Quartucci, Carmelo Bene, Cosimo Cinieri e Leo De Berardinis. Tutti meridionali. La più importante rivoluzione culturale, almeno in teatro, parte dal sud. E Gianni Borgna nel suo libro L’ultima generazione infila tra i suoi incontri importanti Cosimo e Carmelo. Una generazione, quella di questi padri,‘saltata’, rimossa addirittura, dico io. Perché ancora troppo scomoda, troppo elitaria. Ognuno a modo suo sovverte la scena, ma con dei denominatori comuni: intanto quello di essere primi attori-mattatori come vuole la tradizione del grande attore ottocentesco, a sua volta figlio della Commedia dell’arte; che li vede, come quelli, padroni assoluti di una tecnica di recitazione, grandi nella tragedia come nella commedia, manipolatori del testo fino alla sua scomparsa, capaci di modellare su di sé ogni ruolo, possessori di un talento istrionico al servizio della fascinazione, dell’entusiasmo e dell’emozione (anche di repulsione) che devono suscitare in platea. In più, questi sono intellettuali raffinati, elemento determinante che forse mancava ai gigioni dell’800. Del Romanticismo, specialmente dai maudits francesi, ereditano, a mio avviso, anche un certo status filosofico-esistenziale, per cui arte e vita sono un binomio inscindibile.    


Oggi ci sono bravissimi attori (non faccio nomi per non far torto a nessuno), ma questa roba qui di giocarsi il fegato, le cervella, la vita, insomma (CB è morto a 64 anni, Leo a 68), non ci sta. Né fuori né in scena. Ci sta il mestiere, la professione ad Alto Livello, ma il ‘sacro fuoco dell’arte’, almeno io non lo vedo. Altri tempi. La mia generazione è piazzata nei Teatri Stabili, bravissima a gestire i Consigli d’amministrazione, a compilar bandi barocchi e allucinanti accontentandosi di tremila euro. I maestri dell’Avanguardia storica erano outsider: ribelli, afflitti da orticaria rispetto a qualsiasi manipolazione del sistema. Ma non è finita, con loro bisognerà, prima o poi, farci i conti sul serio. Questo è il periodo dell’acquiescenza, si preferisce percorrere sentieri già battuti e comodi. Ma come dice Nietzsche: accade solo ciò che è necessario. E allora, sarà necessario questo in questo tempo.

In che modo la Poetica di Bene ha influenzato la sua ricerca e il suo stile come regista?


 


Appena arrivata a Roma, nel lontano 1975, ho cominciato a frequentare una ‘banda’ di artisti, amici di Cosimo e con cui lui aveva condiviso avventure teatrali importanti, storiche. Carmelo, Leo&Perla, Piero Panza, il pittore Gino Marotta e tanti altri. Mi iscrissi a Filosofia, ma che ci andavo a fare a perdere tempo? Ogni sera erano ore e ore di lezioni pulsanti, vive. Scorrevano barili di vino, ma, credetemi, non ho mai visto sprecare un minuto della loro vita.  Certo, non erano persone accomodanti e, nonostante non avessero neanche 40 anni ciascuno, possedevano già l’aura dei grandi maestri. Io sapevo stare al mio posto e mi nutrivo anche delle loro intemperanze, familiari al mio carattere ribelle. Me li sentivo fratelli. Certamente Carmelo fu l’eletto, a parte Cosimo. Due elementi del loro esistere mi furono congeniali: mettersi in gioco, anche con molta ironia, e una certa sacralità. Se non ci fosse stato questo senso del ‘sacro’, per me, che facevo anche l’attrezzista, sarebbe stato difficile emozionarmi ai monologhi di Otello dimenticando che recitava su un letto di cantinelle. I poeti non hanno pudore verso le loro esperienze intime: le sfruttano. E’ sempre Nietzsche che parla; per dire che dovevi stare in prima linea, sempre. E poi affrancarti, individuarti, subito. Rimbaud a 17 anni smette di scrivere, Laforgue muore a 27, Lautréamont a 24. Non c’è tempo per cincischiarsi. Una delle citazioni preferite di Carmelo: “O si muore giovani o si diventa maestri”; a vederli vivere, a me sembrava che si dovesse far tutte e due le cose nel minor tempo possibile. Per cui, full immersion. E’ ancora così, vivo come un monaco, dedita. Altra lezione fondamentale: il testo è un pretesto. La tua narrazione (critica) corre parallela a quella del poeta. E l’opera è sempre un work in progress. Ma devi avere comunque grandi orecchie come il Budda, pronto all’ascolto e a surfare il momento, l’attimo. A ribaltare quindi, se necessario, ciò che hai pensato un istante prima.


Per istinto, ho trovato subito un mio metodo. Nasco bricoleur. Sguazzando, tra i reperti poetici o letterari e ciò che creo di nuovo con i reperti, cerco di arrivare al cuore delle cose. Forse in trance, per dimenticarmi. E accadono cose incredibili. Come la volta del Macbeth. Sfidando il loggione, pensai una scenografia immensa di legno (550 mq) che aveva un boccascena rettangolare con dei celetti molto bassi; ebbene, quando lo scrittore Giorgio Bassani la vide mi chiese se per caso conoscessi il castello di Macbeth in Scozia, perché i saloni erano proprio così, bassi e rettangolari come schermi cinematografici. E nel Pasolini, pensando al ‘ragazzo di vita’ che cantava Che cosa sono le nuvole? lo immaginai nudo con delle ali nere. Rimasi sconcertata da questa mia idea, trovandola forse didascalica, finché, tra i libri che continuavo a leggere mentre buttavo giù il testo, non mi capitò tra le mani quello del suo presunto assassino Pino Pelosi: Io, angelo nero. La decisione allora diventò irrevocabile e ‘giusta’.


Non sono nostalgica, anche se ritengo importante conservare la memoria senza che questa diventi zavorra; l’età sempre di più mi ordina una direzione: leggerezza. Ne Lo zen e il tiro con l’arco di Eugen Herrigel c’è un insegnamento importante: l’arciere deve restare vuoto; Un colpo-una vita, dice il maestro: è così che arco, freccia, bersaglio e Io diventano inseparabili.

Roberta La Guardia





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