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Il re della foresta

13/05/2012

Volendo rimanere fedeli alla vocazione squisitamente letteraria della rubrica “Candido” oggi narreremo una fiaba che, come tutte quelle che si rispettino, inizia con c’era una volta… “un bellissimo leone, forte e sicuro di se. Passando dinanzi a uno stagno non mancava mai di indugiare un istante, ammirato, nel veder riflessa nelle limpide acque, la propria immagine poderosa. Era senza dubbio il signore indiscusso di quel pezzo di foresta. Una collinetta brulla sovrastava la sterminata distesa di alberi e Prince, il re leone, tutte le mattine inondava da quel punto l’intero territorio coi suoi possenti ruggiti, monito per ogni rivale che volesse attentare al suo potere. Gli anni trascorrevano lieti per il re che non vedeva altri che se stesso al punto che aveva eletto a suoi fedeli collaboratori animali appartenenti a specie diverse dalla sua. Così, nei pressi dello stagno era incaricato lo splendido Dondo, il capriolo. Le ramificazioni del palco brillavano al mattino, imperlate da minuscole gocce di rugiada. Al minimo movimento l’animale levava il muso, con la lunga barba grondante di acqua e di alghe, dalla superficie piatta dello stagno e rimaneva in ascolto col suo udito finissimo. Al minimo segno di pericolo correva dal suo re a riferire. Questi, sornione si dirigeva sul posto ad affrontare l’eventuale nemico. Ma non poche volte Dondo, per suo diletto o per invidia, aveva fatto sbranare altre creature, anche molto affezionate al suo re, inventando strane storie di tradimenti o di complotti. Lo stesso valeva per Stecco, lo splendido cervo che pattugliava le radure o per Lesto, lo sciacallo. Tutti erano stati investiti di grandi poteri dal “padrone” di quel luogo e tutti si davano un gran da fare per non deluderlo. Ma, nonostante le ottime intenzioni, essi non potevano far altro che spiare, riferire, pattugliare, dare l’allarme e bearsi delle grandi abbuffate che quei fertilissimi territori garantivano, e della condizione di esseri privilegiati dal sovrano nei confronti dei loro simili i quali dovevano accontentarsi di poco cibo, tanta paura e tanti soprusi. L’erba più tenera deliziava il palato del capriolo e della sua famiglia; i germogli rigonfi di dolce e nutriente linfa allietavano il grande ventre del cervo e dei suoi amici; le prede più deliziose, abbattute dal leone, venivano lasciate in parte allo sciacallo, che tradendo la propria magrezza risultava di fatto insaziabile e non divideva mai niente con nessuno. A tal punto andavano bene le cose da quelle parti che pareva a quegli individui che un ordine naturale, o addirittura sovra naturale, le avesse in tal modo preordinate e che quello stato di assoluta beatitudine non dovesse incontrare mai la fine. Ma il leone, dopo aver per tanto tempo goduto di quella pace e di quel luogo, delle femmine del suo arem e di tutta quell’abbondanza di cibo e di onori, cominciava a pensare tra se di sperimentare nuove emozioni e fu così che un giorno, lento, sornione come sempre, si incamminò verso la collina. Giuntovi appresso però, anziché far risuonare il proprio predominio su tutte le vili creature di quelle terre continuò, senza voltarsi, a camminare incontro all’alba che si afacciava, fresca e brumosa. Prima un certo stupore, seguito poi da un profondo silenzio si diffuse in tutta la valle quasi che al posto del sole splendente si stessero levando le ombre di una fosca notte. Ma erano le ombre del presagio e della paura che scendevano ad avvolgere i cuori di molte di quelle creature. Quando il galoppo dei battiti cominciava a placarsi e una strana quiete, surreale, andava infondendo un alito leggero di ottimismo nei sudditi, nei servi e nei luogotenenti del sovrano Prince, un ruggito feroce, rabbioso ruppe quell’atmosfera di pietra ch’era venuta a crearsi mandando in frantumi le speranze di ognuno. Il vecchio re, ridotto ormai ad un puntino lontano all’orizzonte, si voltò appena a quel richiamo come gli fosse giunta una flebile voce da un eco lontana. Ma diversa fu l’emozione per coloro che volgendo gli sguardi verso la collina la videro occupata non più da uno, ma da due grandi leoni di colore scuro che protetti dalla luce del sole che sostava alle loro spalle come una cornice infuocata, parevano due ombre nere uscite dagli abissi infernali: magri, emaciati, con occhi di fuoco e fauci spalancate. Senza indugiare oltre essi si lanciarono al galoppo discendendo il pendio in un baleno. Fu però un tempo sufficiente perché Dondo potesse pensare con rammarico a quando aveva indotto il re ad uccidere uno dei propri figli migliori, Politio, destinato a succedergli. Per gelosia; per invidia delle forme e delle grazie di quello splendido esemplare partorito dalla leonessa Democria. Il capriolo aveva raccontato, avallandosi della testimonianza dello sciacallo, sempre pronto ad avere una parte attiva in ogni misfatto, di aver visto la leonessa accoppiarsi nel folto della foresta, in prossimità dello stagno, protetti dal favore delle tenebre, con un giovane leone. Il sovrano, preso dalla gelosia uccise suo figlio solo perché lo incontrò per primo ma sarebbe toccato anche alla stessa Democria se in quel momento avesse incrociato la strada del sire furibondo. Fu il pensiero di un attimo e proprio mentre rientrava in se una forza distruttrice fece letteralmente esplodere i rami di un cespuglio ed un leone dalla folta criniera nera gli si proiettò contro con la furia di un meteorite. Bongo era forte, scaltro ed in salute e profittando della distanza e dell’acqua che si infrapponeva tra lui e l’aggressore scattò subito indietro infilando un sentiero sicuro del bosco. Ma senza neanche accorgersene si sentì scaraventato a terra da un enorme peso e un attimo prima che gli occhi si velassero di buio poté vedere due occhi di brace vicinissimi ai suoi, piantati sulle possenti mascelle che gli serravano il collo poderoso. Quello fu il primo pasto delle due fiere: i nuovi padroni della foresta di Ducania. Stecco era rimasto impietrito nell’udire i rumori che ben rappresentavano ciò che doveva essere accaduto. Anch’egli pensò a quando l’intera figliata di Prince venne sterminata dai bufali a colpi di zoccoli taglienti senza ch’egli, per invidia o per gelosia, avesse avvertito il suo re, padre degli sventurati leoncini. Voltò la faccia dall’altra parte quel giorno il nobile cervo, e continuò a brucare e a sfregare le proprie corna sui tronchi ruvidi senza curarsi del fatto che tra quei piccoli poteva crescere un leone amico che li avrebbe difesi e amati. La giustizia non era un sentimento che il cuore del vecchio re conosceva perché mai nessuno l’aveva richiesta. Ma in un mondo senza giustizia il futuro è incerto per tutti. Immerso in quei pensieri il cervo non si avvide dei cinque paia di occhi che lo circondavano e quando riuscì a mettere a fuoco la vista a nulla gli valse il miracoloso salto, che in un altro momento avrebbe lasciato di stucco qualunque rivale, che riuscì a spiccare perché un intero branco di leonesse gli piombò addosso senza lasciargli scampo. Per lui la morte non fu rapida come per il suo socio Bongo dato che leonesse, sicure del fatto che non avesse via di scampo, non si affrettarono ad ucciderlo e cominciarono, con macabro piacere a divorarlo ancora vivo. L’ultima immagine che Stecco poté rivedere nella mente che si spegneva, fu quella degli zoccoli dei bufali che calpestavano i suoi salvatori. In quel mentre Lesto, senza perdersi d’animo si era rifugiato in un posticino sicuro, dentro la cavità stretta di una roccia ove nessun grosso predatore avrebbe mai potuto catturarlo. E di la seguiva, non senza trepidazione, gli eventi che riusciva a leggere con le sue orecchie e i suoi sensi acutissimi. Di tutti egli era stato il più crudele verso i figli del vecchio re: non per gelosia o per invidia della loro bellezza, ma per bramosia di cibo; per la paura di dover condividere un boccone con qualcun altro. Aizzando il padre contro la propria prole, e a volte con le proprie stesse mascelle, aveva procurato in tante occasioni la morte dei piccoli. Maestro imbattibile nell’imbastire trame; insuperabile spia e ladro impareggiabile non si preoccupava molto di ciò che stava succedendo nella foresta convinto com’era di poter raggiungere il vecchio re e vicino ad esso di poter continuare a mantenere il proprio stato: dopotutto avevano condiviso così tante cose loro due. E se proprio non fosse stato il vecchio re, sarebbe sceso ad accordi con qualche altro protettore visto che con i nuovi padroni, che erano due e che parevano intenzionati a trattare bene il loro branco e la loro prole, c’era veramente poco da sperare. Intanto giù in basso infuriava la battaglia e stra gli alberi echeggiavano rumori spaventosi. I nuovi arrivati avevano circondato le leonesse del vecchio branco che in svantaggio per la mancanza di maschi, ad una ad una venivano tutte uccise. Quando quella terribile tragedia parve essersi definitivamente consumata, lo sciacallo si sporse fuori dal foro del nascondiglio e poté vedere i leoni vincitori, sazi di cibo e di sangue, rinfrancarsi dalle fatiche sdraiati all’ombra di un grande albero di acacia sui rami del quale sostavano in attesa lugubri uccelli saprofagi. Pensò allora che fosse giunto il momento di fare la propria mossa perché nessun leone sazio e stanco per la battaglia si sarebbe mai interessato ad uno sciacallo. Sgattaiolando furtivo, rasente la grande roccia, riuscì a portarsi fuori dagli sguardi del branco assassino e con un ghigno che assomigliava ad un sorriso soddisfatto prese la via della salvezza negli spazi aperti della savana. Ma proprio quando tutto sembrava essersi svolto secondo i suoi piani, dall’erba alta gli si drizzò dinanzi una sagoma che gli gelò il sangue: era Democria, la regina. La più forte, la più fiera delle leonesse. Ferita ma non per questo meno ardente ed altezzosa del solito sbarrava la strada al responsabile delle tante stragi perpetrate a danno dei propri figli. Immobile; con gli occhi iniettati di sangue la leonessa aspettava che lo spregevole essere facesse la prima mossa. Questi, contando sulla sorpresa scartò di lato con una finta ma lei si mise ad inseguirlo proprio come un micio si diverte con un topo al quale ha teso pazientemente un agguato. Una prima zampata fece rotolare lo sciacallo nella polvere. Ferito ma non ucciso Lesto cercò di risollevarsi guaendo: non c’era però, questa volta, il protettore ad accorrere in suo aiuto. Così un secondo colpo d’artiglio gli ruppe la schiena e la bestia ferita continuò, in un ultimo disperato tentativo, trascinandosi solo sulle gambe anteriori. L’odio di una madre che si trova innanzi l’assassino della propria prole proruppe dal petto della leonessa con un terrificante ruggito che fece balzare in piedi l’intero branco dei nuovi padroni. Subito dopo era tutto finito. Dopo aver scosso per terra un’ultima volta quel corpo esanime per accertarsi che fosse davvero morto, Democria come assorta in pensieri più grandi scivolò silenziosa in quell’oceano di erba bruciata. Le povere bestie che abitavano la foresta dovettero subire le coseguenze degli appetiti di due sovrani, del loro branco e dela loro prole e presto si ridussero quasi all’estinzione, tra mille sofferenze. Del vecchio re non si seppe più nulla e furono altri a fare la storia di quelle terre”.
Antonio Salerno



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