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La Melanconia |
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14/04/2011 | Il disgusto per quanto giornalmente ci appare va trasformandosi, via via, in un profondo senso di rifiuto della realtà. È una normale reazione al dolore e al senso di impotenza che ogni animo sensibile mette in atto a propria difesa. Ciò a cui assistiamo è il prodotto dell’affermazione della mediocrità, un paradosso, ciclico, della democrazia che rischia di distruggere se stessa proprio garantendo il diritto ad ognuno di scegliere i propri rappresentanti: in questo modo consente l’aggregazione di mediocri intorno ad altri mediocri seguendo il principio del “similis cum similibus”. Dando infatti per scontato che le eccellenze saranno sempre una minoranza nei confronti dei mediocri si spiega come vengono a formarsi classi dirigenti ad immagine e somiglianza della maggioranza degli elettori: più una società risulta essere evoluta tanto più lo saranno i propri rappresentanti e viceversa. Prendiamo il caso dell’Europa: ci si lamenta della poca considerazione che hanno dell’Italia gli altri membri del Parlamento Europeo. Andiamo a vedere, tranne che per alcune eccellenti eccezioni tra le quali poniamo il nostro conterraneo Gianni Pittella, quali rappresentanti vengono da noi mandati in Europa: forse leggendo quei nomi e quei cognomi, ognuno potrà trovare da se una risposta a tale cattiva considerazione. Ma c’è di più della incapacità nel fare politica: quando la mediocrità arriva al potere lo fa in maniera consona alla propria natura e condizione e quindi in maniera violenta, senza idee, assolutamente senza principi, con l’arroganza tipica degli
animi gretti governati dagli istinti più bassi. Questa doveva essere l’idea di Ippolito Pindemonte quando compose i meravigliosi versi che facciamo seguire: “ fonti e colline – chiesi agli Dei: - m’udirono alfine, - pago io vivrò”. Il poeta trova la sua felicità lontano dalla dimensione umana e metropolitana, lontano dagli egoismi, dagli impulsi, dalle bramosie di potere e ricchezza, beandosi della meravigliosa bellezza della natura. “ne mai quel fonte – co’ desir miei, - né mai quel monte – trapasserò. Gli onor che sono? – che val ricchezza? – di miglior dono vommene altier: - d’un’alma pura – che la bellezza – della Natura – gusta e del Ver…”. Gli esuli di oggi, come quelli di ieri, sono i poeti: spiriti liberi perché assorti nella contemplazione e non nello sfruttamento del mondo. Pare essere una regola dell’universo l’imperitura tirannia degli stolti e il costante sacrificio dei saggi. Il poeta è colui che guarda al creato e ne coglie il bello, in grado di concepire le cose nella mente e plasmare la realtà su quel modello ideale adornando il mondo di un qualcosa che prima non c’era e introducendolo in esso su di una tela, nei monumenti, su di una pellicola, nelle pagine di un libro, nei capitoli della Costituzione. Ma il poeta è anche una creatura fragile e sensibile: vulnerabile perché ha mangiato la mela del peccato e riesce a distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Egli è un essere sociale che vive la realtà a stretto contatto con i ventri pingui, i servili umori, i sibili di esseri striscianti che popolano la società, e allora in tale corruzione si rattrista, si dispera, si perde d’animo privando il mondo della sua propria bellezza interiore destinata a diventare poi anche bellezza esteriore. Allora, nei momenti bui come quello che oggi vive la nostra Nazione che, in quanto a clima, trova un paragone solamente nel ventennio fascista i cui modi, costumi e perfino i nomi e le facce sembrano riemergere in maniera macabra da passato, in momenti cruciali come questi diciamo a quegli animi sensibili e delicati, che non hanno la forza, proprio per la loro natura troppo elevata, di impegnarsi nella lotta politica per la difesa dei valori della libertà e della democrazia, di non smarrirsi; che facessero piuttosto un passo indietro alla ricerca dell’essenza e attendessero integri l’arrivo del sereno perché, come ci mostra Ippolito Pindemonte, la libertà, la bellezza, l’ideale sono custoditi nei loro cuori e loro stessi dovranno trasformarsi in scrigno, ricettacolo, torre e reliquiario ( tanto per parafrasare Umberto Eco) a salvaguardia di quei valori da recuperare come semi di piante preziose dopo che la tempesta avrà esaurito la propria opera distruttrice. A quegli uomini e a quelle donne affidiamo i versi de “la melanconia” affinchè ne traggano la forza per compiere la loro missione e la speranza di vedere realizzato il sogno di un mondo migliore:” né può di tempre – cangiar mio fato: - dipinto sempre - il ciel sarà: ritorneranno - i fior nel prato – sin che a me l’anno – ritornerà…”
Antonio Salerno
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