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C’era una volta il giardino dell’éden

22/03/2011

“Era una magnifica giornata di luglio, una di quelle giornate che capitano solo quando il tempo si è messo stabilmente al bello. Cielo limpido fin da prima mattina; l’aurora non divampa a guisa d’incendio: si diffonde con mite rossore. Il sole, - non infuocato, non rovente, come al tempo dell’afosa siccità, ma nitido e amabilmente radioso, - affiora pacifico sotto una nuvoletta stretta e lunga, risplende fresco e s’immerge nella nebbia violacea di quella. Il sottil lembo superiore della nuvoletta distesa fiammeggia a serpentelli; il loro luccichio e simile all’argento battuto…”. Ivan Turgheniev così descriveva la sua Russia nel lontano 1800 in una delle bellissime pagine tratta dalla raccolta che porta il titolo “memorie di un cacciatore”. L’autore descrive un mondo creato per essere vissuto, per essere ammirato, dipinto, decantato: un mondo che si sta perdendo, forse per sempre. La Russia di Turgheniev è stata purtroppo, dal punto di vista ambientale, una delle prime vittime dell’età moderna: l’industria pesante voluta da Stalin, il petrolio, il nucleare ne hanno deturpato quella incantevole atmosfera che i suoi poeti da sempre rincorrono per cogliere l’ispirazione per le loro opere. Ecco perchè il nostro pensiero si volge, in questo momento alla grande madre terra, la dea dai larghi fianchi che secondo il mito generò Urano, il cielo stellato, e unendosi ad esso diede alla luce le prime divinità. Continuando poi l’opera della creazione la Terra generò altre divinità che rappresentavano i valori morali (giustizia, l’ingiustizia), la condizione dell’uomo (morte e destino), la natura (montagne, fiumi, l’arcobaleno); in una sola parola: il creato. Diciamo questo per sottolineare che nel mondo antico e perfino nella mitologia l’uomo rappresentava solo una parte del tutto e non poteva essere niente senza il tutto. Gea, sin dall’inizio, e non solo metaforicamente, ha amato i propri figli ed ha pianto per le loro sofferenze ma, soprattutto nel nostro tempo, non è stata dai propri figli riconosciuta, amata rispettata. Al contrario, le società moderne ne hanno succhiato la linfa vitale inoculando in essa, al contempo, un mortale veleno proprio così come avverrebbe ad una gatta amorevole che volesse allattare, per pietà, dei piccoli serpenti. I rettili guidati dal loro istinto ferale non riconoscerebbero il gesto d’amore cagionando a colei che li nutre, con venefico morso, una orribile morte. È toccante ricordare, sempre rifacendosi alla mitologia, che dopo Gea nacque Amore ma insieme ad esso vennero alla luce anche l’Erebo, terribile divinità delle tenebre eterne e la Notte, dea buia e misteriosa. Allora guardando alle devastazioni che oggi subisce il nostro pianeta sorge spontanea la domanda: forse che i greci intravedessero, dal lontanissimo passato, il destino dell’umanità? La notte infatti sembra aver ammantato le menti degli uomini e avviato i loro passi verso il profondo abisso dell’Eremo. E pensare che anche la nostra religione, cristiana e cattolica, ci rammenta come all’uomo sia stato concesso, è vero, di godere del mondo e di sottometterlo ma gli è stata anche fornita la guida della ragione e della Parola affinché esso possa esercitare con giudizio quello che viene universalmente riconosciuto come il dono più grande di Dio: il libero arbitro. Tale dono infatti, non dimentichiamolo, vincola l’uomo e le sue scelte al giudizio finale. L’uomo moderno è divenuto egocentrico, nichilista, anche se vestito da cattolico moralista, edonista e crapulone; ignorante, perché sempre più rinuncia a ricercare i valori universali da porre a base della propria esistenza, e convinto di potersi rapportare alla terra sulla base di registri contabili, proprio come farebbe se si trattasse di una qualsivoglia speculazione imprenditoriale o bancaria. Così ci troviamo a vivere in un mondo in cui è scomparso il cielo azzurro, l’aria salubre, le acque cristalline. Un mondo in cui politici corrotti ci propinano centrali nucleari che esploderanno, non prima di aver procacciato a loro e ai loro amici e servi, enormi guadagni al duro prezzo che pagheremo tutti: l’avvelenamento dell’aria, dell’acqua dei raccolti. Ma prima ancora della creazione delle grigie centrali nucleari questi signori si adoperano nell’ osteggiare gli investimenti sull’energia pulita, temibile baluardo per un uomo diverso che sappia ben coniugare progresso e rispetto per l’ambiente forse a svantaggio solamente degli interessi dei pochi. E allora, visto che per ingrassare i nostri maiali dobbiamo rinunciare al giardino che Dio ci aveva donato sogniamo ancora il mondo che ci stanno distruggendo con le pagine del grande Ivan Turgheniev, e torniamo al prato di Biez : “ verso sera quelle nuvole scompaiono; le ultime di esse, nerastre e indefinite come fumo, si adagiano in rosei gomitoli di contro al sole che tramonta; nel punto dov’esso è calato così quietamente come quietamente si era levato in cielo, uno splendore vermiglio rimane per breve tempo sulla terra oscurata, e tremolando lieve, come una candela portata con cura, si accende dietro a lui la stella vesperina. In tali giornate tutte le tinte sono attenuate; luminose ma non sgargianti; su tutto riposa l’impronta di una commovente dolcezza…”. Per dieci anni durò la guerra tra gli Dei arroccati sul monte Otri e capeggiati da Saturno, tiranno che divorava i propri figli dopo che la grande e placida Madre Gea li aveva partoriti e i seguaci del saggio Giove arroccati sull’Olimpo. Una guerra simile si combatte oggi tra coloro che lottano per avere un progresso al servizio dei loro insaziabili ventri e coloro che credono in uno sviluppo che tenga conto della salvaguardia ambientale e dei valori propri dell’uomo: amore, solidarietà, fede, giustizia. La guerra tra gli Dei si combatteva con gli enormi massi che i centimani scagliavano verso i titani e gli attacchi di questi che impiegavano la loro forza bruta. Oggi invece, noi dobbiamo combattere la nostra battaglia con le armi del diritto e del sapere contro un nemico tanto terribile quanto potente: l’ignoranza del popolo mantenuto in tale stato dalle lobbie del potere economico e dai loro asserviti politici. Giove vinse la sua guerra grazie alla folgore forgiata dai ciclopi: terribile arma che simboleggia però anche la luce e la giustizia. Noi potremo vincere la nostra guerra se riusciremo ad illuminare la tetra notte che avvolge le coscienze con la luce dell’amore, del sapere e della giustizia. Tutto questo avverrà quando l’uomo si sentirà felice nel contemplare un mondo di per se meraviglioso che esso avrà reso anche giusto e si sarà allontanato dalla bieca piacevolezza che scaturisce dall’assumere eccitanti, sedativi, allucinogeni o dall’oltraggiare le bianche carni di sventurate fanciulle condannate a vittime sacrificali dalle disumane leggi del’uomo. Ma non possiamo concludere con l’immagine della guerra: ce ne sono troppe e troppo reali, terribili, troppo ingiuste e cruenti affinché ci possa essere concesso di serbarne un’altra nel cuore. E allora rifugiamoci, scampando per un attimo ai veleni che gli aerei da guerra spandono nell’aria che respiriamo, alle violenze che mirabili strumenti di morte propinano a piene mani, nel placido mondo che Ivan Turgheniev ebbe la fortuna di vedere e vi giungiamo sul calar della sera: “…di contro al sole che tramonta. L’aria asciutta e pura odora di assenzio, di segale mietuta, di saggina; umidità non ne sentite fino a un’ora prima di notte. È il tempo che l’agricoltore desidera per il raccolto del grano. La luce del crepuscolo si spegneva e nell’aria ancor chiara, anche se non illuminata dai raggi del sole ormai tramontato, cominciavano ad addensarsi e spargersi fredde le ombre, quando io risolsi finalmente di tornare a casa. camminavo sempre e già mi accingevo a sdraiarmi in qualche posto fino al mattino, quando all’improvviso mi trovai sopra uno spaventevole precipizio. Ritirai prontamente il piede che avevo alzato e, nell’appena trasparente oscurità della notte, vidi lontano sotto di me un’immensa pianura. Un largo fiume l’avvolgeva allontanandosi a semicerchio; i riflessi d’acciaio dell’acqua, luccicando a tratti e confusamente, ne segnavano il corso. Nell’angolo formato da quel dirupo e dalla pianura, vicino al fiume ardevano di rossa fiamma e fumavano l’uno accanto all’altro due fuocherelli. Intorno brulicava di gente…mi ero ingannato a prendere per mandriani la gente che stava attorno a quei fuochi. Erano semplicemente ragazzetti di contadini del vicino villaggio che badavano a un branco di cavalli. Dissi ai ragazzi che mi ero smarrito e sedetti accanto a loro. Mi sdraiai sotto un cespuglio brucato e presi a guardare intorno. Il quadro era meraviglioso: accosto ai fuochi tremolava e sembrava spirare, appoggiandosi all’oscurità, un tondo riverbero rossastro; lontano all’orizzonte s’intravedevano confusamente, a guisa di lunghe macchie, colline e boschi. Il cielo scuro e terso ci sovrastava solenne e immensamente alto con tutta la sua misteriosa magnificenza. Il petto era piacevolmente oppresso nel respirare quell’odore particolare, fresco ed estenuante: l’odore della notte estiva russa…”.

Antonio Salerno



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