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Sud Italia 1628

28/06/2011

Ogni forma di progresso nasce da un moto di pensiero, da una rivoluzione culturale cui segue un rivolgimento sociale ed economico. L’arretratezza del sud dell’Italia dipende proprio da questo: dalla mancanza di un pensiero innovatore in grado di trascinare il rinnovamento. Una fotografia del nostro bel meridione possiamo trovarla nei promessi sposi. La vicenda, nota a tutti, è ambientata nel 1600 : Renzo e Lucia intendono sposarsi e un nobile del luogo, Don Rodrigo, infatuatosi della donna osteggia l’unione tra i due giovani. Uno dei personaggi più famosi del romanzo, Don Abbondio, risulta essere anche uno dei più emblematici rispetto all’argomento che intendiamo trattare, e cioè lo stampo feudale dell’attuale Italia del sud. Cominciamo quindi a vedere come lo stesso autore descrive il personaggio: ” per dir la verità, non aveva affatto pensato agli obblighi e ai nobili fini del minitero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta”. Intermediario tra il potere e il popolo, Don Abbondio ha il compito di tenere a bada le pretese di rivalsa culturale del popolo: una specie di frangiflutti, un battaglione di prima linea. Poco istruito, pavido, meschino svolge però il suo compito quotidianamente non già per amore di qualcuno o per un ideale ma per la propria sopravvivenza e per il mantenimento dei propri, miseri privilegi. E lo fa uccidendo, quando può e come può, le argomentazioni del popolo, quelle che potrebbero portare alla formazione di una coscienza civile, insinuando il sospetto, gettando ombre su quanti possano in qualche modo turbare lo stato delle cose e di conseguenza la propria posizione. Ci sono politici e funzionari nel sud, ma forse anche nel nord, che vengono collocati appositamente in alcuni posti per svolgere la medesima azione che il personaggio Don Abbondio svolgeva sul popolo. Ma andiamo avanti perché l’aspetto più interessante, e più attuale, è senz’altro quello dell’incessante sforzo che ogni beneficiario di immeritati privilegi deve compiere per mantenere tale stato di cose. È infatti sempre un equilibrio precario quello su cui regge una società in cui alcune persone godono di benefici e privilegi a scapito di altre, molto più capaci e meritevoli. Vediamo dunque come il Manzoni stigmatizza questo aspetto descrivendo Don Abbondio: “era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavano come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto era almeno almeno imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovare qualche torto; cosa non difficile perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi declamava contro quei suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gli impicci a contanti, un voler raddrizzare le gambe ai cani…aveva poi una sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galant’uomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri. Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s’è raccontato”. Lasciando la figura di Don Abbondio e diamo uno sguardo anche ad alcune altre figure del romanzo i cui comportamenti e le cui modalità relazionali possono essere assimilate, senza alcuna difficoltà, a quelle di figure presenti nella società dei nostri giorni. A tal riguardo, più significativa di tutte risulta essere l’immagine del banchetto che si tiene nel palazzo di Don Rodrigo. Ricca di personaggi e magistralmente ambientata, descrive perfettamente quanto avviene nelle stanze del potere. Qui i personaggi potrebbero essere tirati fuori da una qualunque cena politico affaristica dei nostri tempi: il signorotto locale adulato, riverito, temuto; il Conte Attilio, suo parente e compagno di scelleratezze con un piede nella corte e nella capitale; il potestà, figura chiave anche della politica moderna: detentore di un qualche reale potere che esercita, come Don Abbondio ma con più ferocia e spregiudicatezza, contro chiunque provi a destabilizzare gli equilibri di potere in essere, saccente, servile, ignorante se pur con una pallida infarinatura di diritto orecchiato presso l’università che gli consente di sciorinare frasi e concetti in modo assolutamente fuori luogo; il resto dei convitati, lì solo per fare affari, servire, compiacere. Un quadretto magnifico della nostra politica e della nostra società nelle quali imperano, certamente con indubbie eccezioni che in molti casi e per ovvi motivi compiono percorsi in salita, l’ignoranza e l’arroganza impersonate dal potestà: servile con i potenti, al punto di divinizzare quasi la figura del primo ministro Don Gasparo Guzman conte di Olivares e duca di S. Lucar, suo padrone lontano, e nello stesso tempo crudele giustiziere del popolo che osava alzare la testa. Quanti ce ne sono, anche qui da noi, nei nostri piccoli paesi; quanti, ognuno di noi, ne conosce personalmente. Volendo trarre un insegnamento dalla storia possiamo dire che gli uomini e le società tendono, col tempo, a cambiare solamente d’abito conservando immutata la sostanza delle cose. Quegli uomini che riescono ad apportare mutamenti sostanziali, anche minimi, nei pensieri e nei comportamenti umani sono indubbiamente quelli che fanno la storia.

Antonio Salerno



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