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Al confinato dell’Oltretomba

28/06/2023

Ospitiamo con piacere, sulla nostra testata, una riflessione di una studentessa lucana segnalataci da un suo insegnante. Il protagonista è Carlo Levi.
Come spiega lo stesso insegnante:
leggendo questo testo sono rimasto particolarmente colpito dalla trama del racconto e dall’immedesimazione che la nostra Kristin ha suggerito nello svolgimento della trama. È stato uno degli ultimi temi in classe che l’alunna ha affrontato durante questo percorso triennale, auguro a lei di diventare una scrittrice attenta e lungimirante in modo da farci riflettere ed emozionare quando un domani, spero il più vicino possibile, leggeremo uno dei suoi lavori.
Lucio Marino
Istituto omnicomprensivo statale – Viggianello (Pz)
Scuole secondaria di 1° grado


Fu inutile tentar di bloccare il paragone che nella mia mente era apparso e aveva preso forma alla vista di quel paese che appariva morto e senza strade. Mi sembrava di essere sulla via dell’Oltretomba, appena sopra al regno di Ade. E tutto quel silenzio era per via della sua infelicità: nel resto d’Italia era primavera, Persephone era dunque libera. Tutti potevano gioire la bella stagione, ma Gagliano doveva riflettere lo stato d’animo di Ade.
Ero una confinata, io, termine forse neanche corretto, di poco uso comune, a causa anche forse della paura: paura di parlare, di professare pacificamente la propria opinione e i propri ideali. E questa paura è legata al fatto che per l’Italia il Partito è uno solo, e o si sostiene, o si ci lascia battezzare. E a me, di Battesimo, è bastato quello cristiano. E l’olio di ricino, non mi è mai sembrato invitante.
La mia colpa è stata quella di unirmi a un movimento antifascista, “Giustizia e Libertà” e di aver partecipato, anche organizzato, le riunioni del movimento. Proprio durante una riunione, la polizia fascista ci ha trovati, illegalmente, dato che non avevano mandato. Ma la giustizia, oggi, non conta più di un chilo di pane. Anzi, quello vale anche di più. Ci hanno condannati, quelli che si credono i giusti, chi al carcere, chi al confino. Solo altre due donne, avevano con me partecipato a quelle riunioni sbagliate, ma né di loro né degli altri avevo avuto più notizie. Sapevo che non erano morti, e che molti di loro erano isolati come me in Lucania.
Lucania, terra isolata e sconosciuta, lontana dal resto dell’Italia, dove le regole si fanno da sé, e dove le notizie non passano raccontate dai giornali, bensì dalle bocche delle formose signore e degli smilzi contadini.
Impiegai solo una settimana, per rendermi conto che le mie considerazioni erano sbagliate. Forse Persephone aveva ingerito altri sei chicchi di melagrana per restare legata al regno di Ade in un’eterna ballata per tutto l’anno.
Gagliano era una terra di magri contadini, di vedove, di bambini, tutti loro dai visi pallidi e dai luminosi occhietti neri. Le vedove, lo erano per mistero. Pochi erano i mariti morti di certo. La maggior parte erano emigrati nelle Americhe in cerca di fortuna e di loro non si era più saputo nulla, e a quelle donne vestite di nero che tenevano per mano un bambino, non era arrivato niente. Quelle stesse vedove erano considerate streghe, autrici di filtri. Qualche contadino, al mio arrivo, mi aveva detto di ringraziare il loro Dio di essere nata donna, poiché i confinati erano le vittime favorite dalle streghe. Io, però, a quelle credenze non davo fede. In un altro contesto forse anch’io sarei stata considerata una strega: sola, senza marito, antifascista e scrittrice. Ne conobbi molte, ma solo con Giulia mi relazionai di più. E lei tutto era, tranne che una donna sgradevole e malvagia. I bambini erano le vittime preferite dalla malaria, con i loro visi gialli e i loro corpicini esili, lasciati consumare dalla malattia dai due soli medicaciucci del paese. Dopo pochi giorni dal mio arrivo, li trovavo spesso nei pressi di casa mia, attratti da Barone, il mio grande cane nero. Solo dopo qualche mese, iniziarono a bussare alla porta per imparare a leggere e a scrivere. Dicevano che a scuola non imparavano niente, con i loro maestri, e io invece potevo loro insegnar tutto, perché ero scrittrice.
Anche se confinata, io scrivevo, continuavo, in una nazione in cui la libertà non si chiama tale, bensì prende il nome di fascismo. Tutt’Italia era solo fascismo.
Era impossibile trovare giornali che riportassero i fatti così come stavano. Non solo perché, come radio e stampa, erano oggetto di propaganda e costretti alla censura, ma perché a Gagliano, i giornali, non venivano letti. Le notizie di quella gente nasceva tra loro e non andava oltre, non si domandavano più di tanto su ciò che accadeva nell’Italia del cieco governo di Mussolini e della guerra in Etiopia. Loro vivevano tra loro, e non avevano bisogno d’altro. “Cristo s’è fermato a Eboli!” mi dicevano, urlando dai campi per farmi arrivare la loro voce. Per i cittadini di Gagliano, Roma non era nulla.
Ma il tempo a Gagliano non restava fermo, nonostante Cristo non ci fosse arrivato, e passarono le lettere, le nevicate tra i vicoli, il Natale. Le lezioni di scrittura con i bambini venivano alternate a passeggiate e alle fosse per i defunti, dov’ero solita, all’inizio, isolarmi. Le serate tra ballate, suonate e serenate giungevano al termine. E io non me ne rendevo conto, perché più il tempo passava, più mi sentivo appartenere alla Lucania, a quella terra sperduta.
La fine di quel periodo arrivò però presto. L’Italia aveva infatti vinto la “guerra sciagurata” in Etiopia, combattuta contro e ai danni di un’intera popolazione, e a molti noi confinati fu per questo concessa la grazia. Una firma, un augurio di buona fortuna, una stretta di mano, dei sussurri e delle occhiate, ed eccomi libera. Ma non volevo più lasciare la terra dell’Oltretomba, non volevo smettere di scrivere al cimitero, non volevo non dormire più nelle fosse per i defunti.
Quando ho raggiunto Gagliano, mi avevano rallegrato i paesaggi che erano stati sfondo di tante favole e storie, ora, quegli stessi colli, mi facevano pungere gli occhi. Quando ho dovuto raggiungere Gagliano, ero desolata dalla mancanza di strade, ora quasi speravo che una frana bloccasse quella principale, per restare in Lucania ancora qualche giorno. Se, mentre avevo raggiunto Gagliano, nella mia mente urlavo “Addio Grassano, addio terre venute da lontano e immaginate!” ora urlavo “Addio Gagliano, addio streghe e contadini! Addio occhietti neri e visi scarni, addio medicaciucci e malaria! Addio case pronte a crollare! Addio paese dominato dall’Oltretomba, dove Persephone resta dodici mesi con Ade! Addio, stendardi neri sulle porte: lasciate che la luce vi sfiori e siate pronti a lasciarvi sbiadire!”.
Scappai a Parigi, non per paura, ma per scelta, restando lì, con solo qualche penna e dei quaderni in mano, a lavorare per qualcosa che sarebbe servita, ne ero certa, appena sarei potuta tornare a casa. E intanto la gente moriva nei campi, ma non quelli dei contadini di Gagliano, mentre città intere venivano bombardate e distrutte, ridotte a quelle casa sul punto di crollare l’una addosso alle altre. Potei osservare da Parigi, tutta la mia nazione che lottava, per rompere quella linea che la divideva tra giusti e cattivi, quando di giusti non c’era nessuno, in quanto tutti con le mani sporche di sangue. Mentre i diritti umani venivano calpestati e sgretolati, io ero lì, a chiedermi cosa stesse accadendo alla mia Lucania.
Però la sentivo, che la fine era vicina. La speranza non mi aveva ancora abbandonata, la speranza di un mondo migliore, e continuavo a scrivere e a lavorare per denunciare l’arretratezza della Lucania, sapendo, in fondo, che sarei tornata in patria e che avrei dovuto contribuire per migliorare una nazione priva di libertà. Sapevo che, prima o poi, avrei potuto vantarmi di aver conosciuto delle streghe buone vestite di nero, di aver insegnato a dei bambini, ormai grandi, l’atto della lettura e della scrittura, di sapere cosa fosse un cupi-cupi e di essere stata in una terra sulla via dell’Oltretomba dove, la primavera, durava dodici mesi nonostante la neve, e dove Ade e Persephone erano uniti in una ballata che sarebbe durata in eterno.

Kristin Viceconte


nella foto: Dipinto di Carlo Levi, LUCANIA ’61, particolare



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