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Tra riforma agraria e tentativi di industrializzazione: la vicenda dell’Anic di Pisticci

30/04/2023

Era una caldissima giornata d’estate quel 29 luglio 1961 quando nella Piana di Sant’Angelo di Pisticci alla presenza del Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, del ministro dell’Industria Emilio Colombo, del Presidente dell’ENI Enrico Mattei e di molte altre autorità fu posata la prima pietra per la costruzione dello stabilimento ANIC. Dove un tempo la grande Piana era coltivata a pascolo e frumento, ora viene costruito il grande stabilimento che nel giro di pochi anni avrebbe dato lavoro a migliaia di persone.

L’Anic di Pisticci ha rappresentato il più grande stabilimento nella storia della Basilicata prima della localizzazione, ad inizio anni Novanta del secolo scorso, dello stabilimento FIAT. La decisione dell’ENI di realizzare uno stabilimento petrolchimico in provincia di Matera fu determinata dalle tensioni sociali scaturite dalla scoperta, nel 1959, del metano nel sottosuolo della Val Basento e contenuta nella legge 634 del 1957 che, tra le altre cose, stabiliva l’obbligo per le partecipazioni statali di destinare alle regioni meridionali il 60 per cento dei nuovi investimenti e il 40 per cento degli investimenti complessivi. Il tutto all’interno di un quadro fortemente determinato dai finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno.

La costruzione del nuovo stabilimento Anic (ramo petrolchimico dell’ENI) iniziò nel 1962 e terminò nel 1965 arrivando a coprire una superficie di 45000 metri quadrati. Tale costruzione stravolse quella che era la dimensione rurale e agricola della società materana. Da un punto di vista paesaggistico costituì “un’isola metallica”, come fu definita al tempo, in un mare di campi arati, uno scintillante miraggio di progresso e modernità ampiamente utilizzato nei documentari commissionati dall’azienda a importanti registi con lo scopo di far conoscere il più possibile le nuove attività e i programmi del gruppo.
Questo binomio scienza-tecnica avrebbe marcato il segno della complessa trasformazione in atto in Basilicata e in altre aree del Mezzogiorno dove l’ENI stava costruendo i propri stabilimenti.
Dal punto di vista sociale, invece, è significativo il fatto che i contadini pisticcesi che solo da pochi anni, grazie alle misure previste dalla Riforma Agraria, avevano ricevuto la tanta agognata terra, si affrettavano ad abbandonare il lavoro nei campi per cercare occupazione nei nuovi stabilimenti.
Questo fatto fa emergere un ulteriore problema, quello cioè della mancata pianificazione economica in Regione. Si trovavano a convivere fianco a fianco due opposte visioni del futuro della Basilicata: quella agricola, portata avanti dalle innumerevoli lotte per la terra, e quella industriale, rappresentata dai nuovi stabilimenti che stavano sorgendo.
Quella che mancava era la pianificazione per il futuro, quale tipo di società costruire in Basilicata. Per questo i cittadini di Pisticci e dintorni si sono trovati in pochi anni a combattere prima per ottenere la terra da coltivare e poi a sperare in uno sviluppo industriale. Tutto e il contrario di tutto, figlio di una politica che pianificava in base alle convenienze del momento e a quelle elettorali e non offriva ai propri concittadini una visione sul lungo periodo. E’ chiaro che in una situazione del genere la gente prendeva ciò che, al momento, era la situazione più vantaggiosa.
Ecco perché, come ebbe ad affermare l’antropologo inglese John Davis, che proprio in quegli anni si trovava in zona per studiare le relazioni amicali, di parentela e di vicinato in una comunità del Mezzogiorno, con l’avvento della petrolchimica i pisticcesi furono costretti a ripensare completamente la loro struttura occupazionale e conclusero che le nuove opportunità erano migliori. Il tutto, ricordiamolo, avvenuto nel giro di pochi anni, in un decennio si passa dalla Riforma agraria (avviata con la legge stralcio nel 1950) all’industrializzazione della Val Basento (e non solo) dei primi Anni Sessanta. Allora viene da chiedersi: in che misura erano coinvolte le popolazioni locali nei vari processi che si andavano affermando? Può sembrare questa una osservazione marginale, in realtà non è così perché ci spiega i veri motivi di tali scelte politiche.

Proviamo ad analizzarle.
Come abbiamo detto si parte dalla Riforma agraria avviata da De Gasperi, con Colombo sottosegretario all’Agricoltura e Foreste, nel 1950. Quella della realizzazione della Riforma agraria finalizzata all’esproprio e alla ridistribuzione dei terreni ai contadini era una necessità condivisa da tutti e resa ancora più impellente dalle tensioni sociali che si verificarono soprattutto nel Mezzogiorno. A tal proposito affermava l’economista Rossi-Doria: «Quella del Mezzogiorno è una realtà in contrasto con le più elementari esigenze della civiltà. Il livello dei consumi delle masse contadine del Sud è il più basso d’Italia, tra i più bassi del mondo...
Ai bassi consumi e al durissimo lavoro si accompagnano condizioni di vita non degni di esseri umani». Quindi tale riforma non era più rinviabile; per questo con l’approvazione della legge 841/50 si diede avvio all’espropriazione e ridistribuzione della terra alla piccola proprietà contadina. Contemporaneamente, nello stesso anno, con la legge del 10 agosto n. 646 fu approvata la “Cassa per il Mezzogiorno” per opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale. In Basilicata la superficie espropriata fu di circa 75000 Ha, in gran parte nella provincia di Matera nella Piana metapontina; questi terreni espropriati furono distribuiti ai coloni di circa 12000 poderi. L’assegnazione di case coloniche e poderi non sortirono, però, gli esiti sperati e la Riforma, sotto alcuni punti di vista, si rivelò un fallimento. A tale esito contribuirono l’isolamento dei poderi, la limitata o mancata costruzione di infrastrutture e opere per l’irrigazione, la scarsa qualità delle terre che determinarono ben presto l’abbandono dei fondi assegnati con la conseguente emigrazione.
A questo punto arriviamo alla fine degli Anni Cinquanta con la scoperta dei giacimenti di metano nel sottosuolo della Val Basento. Altra opportunità da sfruttare e via con la realizzazione dello stabilimento Anic di Pisticci. La Basilicata da centro rurale ed agricolo diventava, di colpo, esempio di progresso e modernità (almeno così veniva presentata da importanti registi del tempo). Ma, ad un’attenta analisi, c’è un filo rosso che unisce le due esperienze di intervento statale in Basilicata: entrambe, sia la Riforma agraria e sia il processo di industrializzazione della Val Basento, hanno un identico minimo comun denominatore che potremmo sintetizzare nella strategia “top down”. Una strategia, quest’ultima che, per capirci, prevede che il flusso di informazioni e direttive si trasmette dal vertice alla base. Questo era il modello applicato per lo sviluppo del Mezzogiorno (e della Basilicata) prima con la Riforma Agraria e poi con l’industrializzazione. E le popolazioni locali? Erano semplicemente ignorate, il tutto si decideva nelle segrete stanze a Roma senza coinvolgere nessuno nel processo di emancipazione sociale ed economica. E’ chiaro che, impostato così il discorso, i cittadini delle aree interessate da tali provvedimenti sceglievano volta volta le opzioni che gli convenivano perché a quei progetti non erano legati sentimentalmente, non era stato un moto partito dal basso che li coinvolgeva, non li “sentivano loro”, ma vedevano in essi soltanto un qualcosa piovuto dall’alto e frutto della benevolenza di qualche politico. Era una strategia che non aveva prospettiva futura perché figlia di una errata concezione delle istituzioni: la grande differenza che emerge in questo campo tra le istituzioni, politiche ed economiche, del nord Italia e quelle del Sud risiede nel fatto che le prime possono essere considerate “inclusive”, mentre quelle meridionali “estrattive”. E’ il tipo di istituzione, quindi di mentalità, che deve essere messa in discussione e quella portata avanti nel meridione era un tipo di mentalità che potremmo definire come un adattamento delle classi dirigenti e della società meridionale ad una modernità imposta dall’esterno, una modernizzazione senza cambiamento sociale. Questo tipo di istituzione, come abbiamo detto, appare come conseguenza di istituzioni di tipo “estrattivo”, cioè istituzioni che concentrano il potere nelle mani di èlite ponendo vincoli, formali e informali, alla reale partecipazione dei cittadini e che sono concepite per estrarre reddito e ricchezza da una larga parte della società a vantaggio di ristrette fazioni privilegiate.
Sorte che è capitata anche all’Anic di Pisticci, la quale negli anni Sessanta era arrivata a dare occupazione a circa 6000 persone e che aveva prefigurato quella “svolta occupazionale” che la società lucana attendeva da decenni. Ma purtroppo la crisi, italiana e globale, della metà degli Anni Settanta e la prematura scomparsa di colui che per primo aveva scommesso sull’industrializzazione della Val Basento Enrico Mattei, ha riportato tutti i nodi (politici ed economici) al pettine costringendo alla chiusura dello stabilimento petrolchimico di Pisticci.


Nicola Alfano



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