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La Basilicata e ''i percorsi del potere'' nella storia |
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22/03/2023 | “Il potere di un uomo consiste nei mezzi di cui dispone al presente per ottenere un possibile bene futuro” (Hobbes). Che significato ha questa frase di Hobbes per il contesto lucano? O meglio, potrebbe avere un significato questa frase per il contesto lucano? Sicuramente per cercare di dare una spiegazione a questa affermazione bisogna, per prima cosa, cercare di capire i mezzi di cui uno dispone e poi vedere come quei mezzi vengono utilizzati, con quali fini. Quali sono stati i mezzi utilizzati per “creare” questo potere? Bisogna, quindi, fare un’analisi sulla società lucana per far emergere e far venire alla luce i mezzi utilizzati per creare e perpetrare questo potere. Ma, nel fare questo, già diamo per scontato un concetto: in Basilicata è esistito un potere che in passato ha “condizionato” le elezioni! Affermazione forte quest’ultima ma, d’altro canto, come spiegare, da un punto di vista storico-critico e al di la di qualsiasi fede o appartenenza politica, i risultati elettorali che per ben 49 anni, dall’istituzione delle Regioni nel 1970 e fino al 2019, anno della storica prima vittoria del centrodestra alle elezioni, videro sempre alternarsi governi di una sola parte politica? E che bisogna aspettare il 2000 per vedere un Presidente di Regione (Filippo Bubbico) che, pur provenendo dallo stesso schieramento politico, non sia espressione diretta della Democrazia Cristiana o del Partito Popolare Italiano? Ma il dato più preoccupante è che questi dati stridono se messi a confronto con quelli relativi all’emigrazione nello stesso periodo di tempo; fonti Istat attestano che si è passati dai 603.064 abitanti del 1971 ai 541.168 del 2021: in mezzo secolo, quindi, abbiamo perso 61.896 abitanti! Come spiegare questi numeri che, nella loro crudezza, ripropongono un tema drammatico e mai veramente risolto come quello dell’emigrazione? Qualcuno potrebbe obiettare che è proprio grazie a quella classe politica che il fenomeno dello spopolamento dei piccoli centri, la desertificazione dei servizi in questi stessi centri e molte altre problematiche non siano esplose già a partire dagli anni Settanta e Ottanta: può darsi che queste persone abbiano ragione. Però una corretta indagine storica pone il problema nella sua veste più nuda e cruda, quella dei numeri!
A questo punto le strade sono due: o in Basilicata si stava veramente bene, e questo giustificherebbe cinquant’anni di governi, per buona parte, monocolore, oppure la gente di questi governi non era contenta, e questo giustificherebbe il dato sull’emigrazione. Tertium non datur dicevano i latini! Il problema è che siamo in presenza di due verità incontestabili, ma non abbiamo una (apparente) risposta a queste verità. Come spiegare il fatto che i lucani per cinquant’anni votano con maggioranze bulgare sempre una parte politica e poi anno dopo anno lasciano sempre più numerosi la Regione? Se non sono contenti perché continuano a votare per mezzo secolo sempre gli stessi? A chiunque verrebbe il dubbio che il voto, a questo punto, non sia stato libero. Intendiamoci, non vogliamo in alcun modo affermare che non sia stato un voto democratico, non libero ci riferiamo a un voto che, in un certo senso, è stato “condizionato”. Ma condizionato da cosa? Ecco che a questo punto entra in scena la Storia.
Negli ultimi tempi la letteratura in merito è andata sempre aumentando e sempre di più sono gli studi che tentano di far luce su un periodo storico (quello democristiano) che molto spesso è stato osannato (giustamente), ma mai analizzato criticamente, facendo emergere anche le ombre, accanto alle luci. Questo è accaduto perchè, specialmente in Basilicata, esisteva una vera e propria “rete politica” che affiancava il partito e lo aiutava nella gestione del consenso e quindi a procacciare voti. Questa rete politica in primis era composta dalla Chiesa locale in tutta la sua gerarchia, dal vescovo all’ultimo prelato del più piccolo e sperduto paese, e dalle tante associazioni cattoliche (Azione cattolica, Coldiretti, ecc.).
Ora con questo non vogliamo in alcun modo mettere in dubbio la legittimità delle varie gerarchie ecclesiastiche nel fare politica, poniamo soltanto il dubbio se questo “attivismo” abbia “condizionato” il libero voto popolare. Perchè, se così non fosse, come spiegare ad esempio la grande affermazione elettorale di Emilio Colombo alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946? Ricordiamo che in tale circostanza, il giovane Colombo, allora ventiseienne, risultò uno dei membri più giovani del Parlamento Italiano con 26000 preferenze, superando di gran lunga in Basilicata un altro grande intellettuale e meridionalista lucano, fervente antifascista, economista, ex Presidente del Consiglio e più volte ministro: Francesco Saverio Nitti. Come spiegare questo grande successo elettorale del giovane Colombo nei confronti del “grande Laico di Melfi”? Che poi Colombo si sia rivelato un grande statista non giustifica a priori un successo del genere: Nitti, quasi ottantenne, aveva dimostrato anche con l’esilio le sue capacità politiche e morali, il giovane Colombo era una scommessa, una promettente scommessa, ma niente di più. Eppure dalle urne uscì un’altra verità: il giovane “sagrestanello”, come lo stesso Nitti aveva definito Colombo, trionfa contro uno dei padri del meridionalismo. Come spiegare storicamente un risultato del genere? Possibile che un giovane di buone speranze trionfi contro uno dei padri dell’antifascismo? Per rispondere a questi interrogativi, proviamo a vedere chi erano i “protettori” del giovane politico potentino. Colombo era cresciuto, potremmo dire, allevato dal clero potentino, ed in particolare da due importanti vescovi del capoluogo, mons. Vincenzo D’Elia e soprattutto mons. Augusto Bertazzoni. Mons. D’Elia, parroco della chiesa della SS. Trinità di Potenza per oltre mezzo secolo, occupa un posto significativo nel contesto del movimento religioso, culturale, sociale e politico dei cattolici nel Mezzogiorno.
Fiduciario di don Sturzo in Basilicata, il 13 settembre 1919 nel salone della chiesa della Trinità redige il verbale con il quale si sancisce la nascita del Partito Popolare in Basilicata, ebbe - come scrive Gabriele De Rosa - «larga parte, dagli inizi del secolo, in tutte le iniziative cattoliche regionali[…]; irriducibile antifascista, troviamo il suo nome fra i promotori della Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra». E Colombo, nato l’11 aprile 1920, sarà proprio chierichetto di mons. D’Elia, il quale oltre ad essere pastore di anime, sa bene quanto conti per la causa cattolica che le pecorelle, quelle più capaci, imparino a destreggiarsi nella politica. E Colombo è uno di questi! La fortuna del «sagrestanello» dalle belle speranze nasce tutta intorno a Via Pretoria e la chiesa della Trinità, non lontana dalla sua casa, e centro del notabilato cattolico. Lì Colombo aveva fatto le sue prime esperienze come Delegato Diocesano per gli studenti della parrocchia della SS. Trinità di Potenza ed aveva avuto un ruolo importante nell’organizzazione e nella formazione cristiana della gioventù potentina e dei comuni vicini. Nel 1936, a soli 16 anni, diviene Presidente del Consiglio Diocesano, nel 1938 incaricato regionale della GIAC (Gioventù Italiana Azione Cattolica) e nel 1946, come detto, deputato all’Assemblea Costituente. Ecco allora che la fortuna di un giovane dalle belle speranze, ma con nessuna esperienza diretta con la politica (quantomeno, non una esperienza paragonabile a quella di Nitti) diviene più chiara se si considera l’appoggio fornitogli dall’establishment ecclesiastico. Tutti i più grandi meridionalisti da Nitti, Fortunato, Ciccotti, Dorso, solo per citarne alcuni tra i più importanti, perdono di importanza davanti al nome di Emilio Colombo, il nuovo vate della Basilicata! Da questo momento in poi per la Basilicata inizia una nuova storia: la Democrazia Cristiana con la sua rete di circoli e sezioni di Azione Cattolica è presente in quasi tutti i centri della Basilicata. E da lì decide le sorti politiche e sociali della regione. In questo periodo, a partire cioè dai primi anni Cinquanta, iniziano ad essere fondate le prime cooperative di consumo, tra le quali spiccano quelle di Venosa e Maschito, seguite dalle prime casse rurali nel Lagonegrese, nel Melfese e nel Materano. La gente, i contadini si fidano di questo giovane il quale non delude il suo elettorato. Fu proprio Colombo, sottosegretario al ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, a portare in Basilicata il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi nel luglio 1950. Prima di lui bisogna risalire al 1902 con la visita del bresciano Giuseppe Zanardelli per vedere un altro Presidente del Consiglio in terra lucana! Ma oramai la storia era cambiata e la Basilicata era diventata il bacino elettorale del giovane onorevole.
Con questo nessuno vuole mettere in dubbio le eccezionali doti politiche di Colombo, ma d’altro canto non si può non rilevare la forte spinta e il forte appoggio (che in politica vuol dire consenso e quindi voti) che quest’ultimo ebbe dalle alte gerarchie ecclesiastiche nostrane. Si dice che fu lo stesso mons. Bertazzoni a volere Colombo candidato al Parlamento e tra le carte del prelato si legge un riferimento esplicito al politico potentino, nel quale si chiede una linea preferenziale, durante le votazioni, per il «nostro giovane segretario della Giac». Poi certo non era costume della Chiesa fare politica attiva per questo o quel candidato, «la propaganda non è stata fatta se non a livello di coscienza cristiana, in risposta alle necessità di scegliere persone oneste e cristianamente degne, che sapessero difendere i diritti dell’uomo e i fondamenti della religione», come si legge in un contributo di don Gerardo Messina nel libro di Donato Verrastro ed Elena Vigilante, “Emilio Colombo. L’ultimo dei costituenti”.
E chi meglio di Colombo incarnava questi sentimenti, lui che a 16 anni era già Presidente del Consiglio Diocesano e due anni dopo incaricato regionale della Giac? Lui che frequentava quotidianamente l’abitazione del vescovo Bertazzoni e che quando rientrava a Potenza come prima cosa doveva andare a far visita al «suo vescovo»?
Il non detto e il sottinteso, in questo caso, hanno detto molto di più di mille parole e mille discorsi. La strada del nostro «sagrestanello» verso il potere era ormai spianata.
Nicola Alfano |
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