Questa storia - nella Regione più povera d’Italia, senza giovani e senza lavoro, in preda a signorotti, usurai, istituti di debito e multinazionali - ci ricorda che in fin dei conti ciò che è cambiato è semplicemente il padrone e che la strada da fare è ancora lunga. Corre il lontano 1956. L’anno si apre con un inverno molto rigido, un elemento di sofferenza in più per la gente del Sud già provata da povertà ed emigrazione. I braccianti senza terra (ancora molti, nonostante la Riforma) soffrono i problemi della disoccupazione. Sono tanti, sfruttati e incazzati. Tra di loro c’è un giovane di Venosa, Rocco Girasole, un ragazzo solare, “pazzerello” (come dicono i suoi compagni riferendosi al suo ritardo mentale), figlio della miseria più nera. Il 13 gennaio è fra i 300 braccianti che si ritrovano in Via Roma, a Venosa, per l’ennesimo “sciopero al rovescio“, vale a dire la protesta di quelli che un lavoro non ce l’avevano e protestavano lavorando per opere d’interesse pubblico nell’Italia post-bellica che accumulava, a causa della DC, ritardi biblici nella ricostruzione del Paese. A Venosa è nevicato parecchio nei giorni precedenti e così i 300 braccianti, armati di pale e picconi, si riversano nella strada principale per sgombrare il fango che si era accumulato sul terreno. Decisa a “disarmare” gli scioperanti e a scoraggiare la protesta, la polizia si fa trovare lungo la villa comunale. Partono le manganellate e i lanci di fumogeni, i braccianti reagiscono, i militari ricorrono al piombo. Alcune sventagliate di proiettili sparati prima in aria e poi a terra, per giunta nei pressi della vicina scuola elementare, iniziano ad intimorire i manifestanti che iniziano a ripiegare nei vicoli del paese nel tentativo di coordinare una resistenza più massiccia. Rocco, sempre in prima linea, come quando nei cortei apriva lo spezzone sventolando con orgoglio la bandiera rossa, si trovava lungo via Roma per indicare ai compagni i crocicchi presidiati dai militari. Pochi minuti e il suo corpo si troverà accasciato a terra, attraversato da una scarica di proiettili ad altezza uomo che non gli daranno neppure il tempo di capire cosa fosse successo. Venosa reagisce, dai vicoli riparte la sassaiola e con essa una nuova offensiva della polizia. Dura poco. Con un coltello puntato alla gola, il maresciallo è costretto ad ordinare di cessare il fuoco. Di quella morte, di quel funerale negato, di quei 19 anni di carcere che complessivamente scontarono alcuni compagni di Rocco, rimane ben poco. La notte del 13 gennaio il prefetto di Potenza, seguendo quella stessa prassi mafiosa che renderà poi nota la nostra terra per casi ancora più eclatanti, impartisce l’ordine di prelevare forzosamente il cadavere di Girasole e di seppellirlo in gran segreto nel vicino cimitero del paese. Con lui viene tumulata anche una storia maledetta, destinata forse a sgonfiarsi e ad esaurirsi lentamente con il passare del tempo, una storia perniciosa, una vera chiazza di sozzume su quell’immagine felice ed edenica di una Basilicata virtuosa e geneticamente pacificata, senza lotte o bizze rivoluzionarie. Ma dopo 57 anni di fili della memoria recisi, di alchimie storiche e di continui addomesticamenti del nostro immaginario, il fantasma di Rocco potrebbe davvero tornare a tormentare i placidi sonni dei nuovi “latifondisti” del sud. Nella Regione più povera d’Italia, senza giovani e senza lavoro, in preda a signorotti, usurai, istituti di debito e multinazionali, in fin dei conti ciò che è cambiato è semplicemente il padrone. Da qualche tempo è in rete il documentario su Rocco Girasole. Ne consigliamo la visione per tre motivi: a) è una ricostruzione molto dettagliata dei fatti del 13 gennaio 1956; b) è un documentario ben fatto, molto godibile e ricco di testimonianze suggestive; c) è un’opera corale che vale anche come documento linguistico sul dialetto di Venosa. Che dire di più, buona memoria e buona visione!
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