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La follia dittatoriale

30/05/2011

Ogni dittatore crede di essere il centro del mondo. Non si può essere dittatori se si accetta quella elementare regola della democrazia riassunta nella massima: “tutti gli uomini sono uguali per diritti e per doveri”. Ogni despota crede di essere al di sopra del resto dell’umanità e per questo, quando il momento della caduta si avvicina, si sente autorizzato, anzi quasi in dovere, di trascinare nel baratro tutti quelli ch’egli considera come suoi sudditi. Il tiranno non accetta l’idea che qualcuno possa sopravvivergli, figuriamoci poi quella che qualcun altro possa prendere il suo posto: in ciò risiede la pericolosità di certi passaggi della storia. Un tale atteggiamento psicologico è facilmente spiegabile se si pone a confronto con quello democratico: in una democrazia ogni singolo politico, per quanto importante possa essere il ruolo che riveste, deve quotidianamente confrontarsi con idee e punti di vista differenti e per mantenere la propria posizione dovrebbe essere in grado di convincere gli altri della validità delle proprie scelte, e questo basta, anche se sotto forma di abitudine di pensiero o accettazione di una regola data per scontata, a contenere l’”io” del singolo nell’alveo dei corretti equilibri istituzionali e sociali. Il dittatore, al contrario, non è tenuto ad ascoltare nessuno, a condividere con nessuno le proprie decisioni e si limita ad impartire ordini che gli altri devono semplicemente eseguire. Questo contribuisce a gonfiare e dilatare il suo ego in maniera distorta e potremmo dire patologica, fino ad un completo scollamento tra la psiche e la realtà contingente, a tal punto da arrivare a porre il resto del mondo nell’ombra di se stesso.

Ora riprendiamo, dopo un po’ che lo avevamo lasciato, la lettura del diario di Galeazzo Ciano, e torniamo con esso al 1943, anno in cui le cose cominciano ad andare male per il tronfio regime fascista. Si tratta di soli quaranta giorni di cronaca, registrata dall’interno del regime e, potremmo dire, da un ignaro ma molto attendibile biografo di Benito Mussolini: il genero, Conte Ciano, che continua ad annotare fino a poco tempo prima che fosse arrestato e fatto fucilare. In queste ultime, drammatiche pagine del diario sono evidenti i segni della disfatta, che sono sempre gli stessi, inequivocabili, per ogni regime: l’insorgere del dubbio sulla reale infallibilità del capo; il murmure dello scontento tra i topi che si sono ingrassati nella stiva e che si leva basso, dal fondo; la fuga degli alleati; le promesse mirabolanti ed illusorie da propinare per l’ennesima volta al popolo credulone e, per il tiranno e i suoi cortigiani, debole di mente; la caduta, che avviene quasi sempre per un indebolimento interno ma che è determinata da una forza esterna quale può essere una guerra ma anche un sollevamento popolare o un voto di dissenso. Torniamo però, col diario, a vivere l’atmosfera di quei giorni del lontano 1943, a noi tutti in un certo senso, purtroppo, abbastanza familiare:
5 gennaio 1943 “Mussolini è depresso per la situazione in Libia. Si rende conto che la perdita di Tripoli inciderà a fondo sul morale del popolo italiano. Vorrebbe che ne fosse tentata una difesa ad oltranza, strada per strada, casa per casa, come a Stalingrado. Ma è convinto che ciò non avverrà”.

Quindi Mussolini si sarebbe aspettato che gli uomini dell’esercito italiano, ragazzi e padri di famiglia, si facessero massacrare inutilmente visto che come afferma lo stesso Ciano, nel medesimo appunto, la città risultava essere indifendibile: “ d’altronde è impossibile (scrive): la città è aggredibile d’ogni lato e bombardabile dal mare”.

6 gennaio Roatta e Geloso…Ambedue questi generali vedono scuro nel domani e pur senza confessarlo apertamente fanno presagi non lieti.

7 gennaio. …Pirelli parla con me a carte scoperte. Riferisce un suo colloquio con un banchiere svizzero reduce da Londra e non nasconde ch’egli ormai giudica la guerra vinta dagli alleati.

8 gennaio 1943 trovo il duce ancora più giù fisicamente: adesso ha il rovello dell’abbandono di Tripoli e ne soffre. Come al solito si è scagliato contro i militari che non fanno la guerra “col furore del fanatico ( che all’epoca doveva suonare come un complimento) bensì con l’indifferenza del professionista”. ( È proprio un vezzo comune a tutti i dittatori, o aspiranti tali, quello di chiedere agli altri sacrifici estremi per rimediare ai propri errori, soprattutto nell’ora della resa dei conti).

11 gennaio durante la notte von Machensen ha telefonato, d’ordine di Ribbentrop per informare che Pétain si prepara a lasciare Vichy, diretto alla sua villa vicino Marsiglia. Il movimento era sospetto: prodromi di fuga in Algeria? Il maresciallo Antonescu, parlando con Bova Scoppa, ha parlato della nuova arma segreta tedesca che dovrebbe fare prodigi: il cannone elettrico a canna lunga.
Abbiamo detto si dall’inizio che la rubrica “Candide” sarebbe servita a creare dei nessi tra le cose e come fare per non scorgerne anche tra il ventennio Mussoliniano e quello Berlusconiano: in entrambi i casi la gente ha creduto in un cambiamento sull’onda di una profonda delusione dell’esperienza parlamentare e del pietoso spettacolo offerto da una sinistra arrivista, fanatica e litigiosa. In entrambi i casi è stato eletto in modo quasi plebiscitario un leder populista bramoso di potere, nel caso di Mussolini, e anche di ricchezza personale, nel caso dell’altro. Il dittatore degli anni venti ha stravolto le regole dell’ordinamento democratico ponendo se stesso al di sopra dello stato; il Primo Ministro attuale ha dovuto fare i conti con una costituzione lungimirante fatta proprio per resistere ad un tale urto ed una realtà europea avversa ad una deriva autoritaria. Tutti e due hanno comunque deluso profondamente coloro che avevano creduto in loro, e non poteva essere diversamente visto che solo un popolo estremamente ingenuo, come quello italiano, può rimanere eternamente legato all’idea malsana di trovare la soluzione ai propri problemi in una figura forte anziché attingere alle migliori risorse umane e professionali che si trovano al proprio interno. Silvio Berlusconi aveva infuso negli italiani la speranza che avrebbe fatto per loro ciò che così abilmente era riuscito a fare per se stesso ed ora, al di là delle chiacchiere che coloro i quali hanno imparato a memoria il manualetto del “disturbatore” nei dibattiti pubblici, sciolinano pappagallescamente rimane la cruda realtà legata a quelle persone che si guardano intorno, si mettono le mani in tasca e ciò che possono trovare è solo desolazione: anche se non vi è stata una guerra siamo comunque ad un passo dal disastro. E pensare che quello italiano è un popolo operoso, virtuoso, pieno di spirito di iniziativa, capace, intraprendente e anche ( purtroppo ciò costituisce motivo di vanto per chi non lo meriterebbe) oculato, parsimonioso e capace di enormi sacrifici. Ma, come si sa, le crisi economiche possono essere superate lavorando e risparmiando. Ciò che invece è più difficile da recuperare è l’enorme vuoto istituzionale che le politiche di destra e di sinistra, fatte da carrieristi senza mestiere, hanno creato escludendo le nuove generazioni dai posti di responsabilità operando anzi una vera e propria selezione al ribasso: chiunque investiva tempo ed energie negli studi e nel lavoro senza passare le proprie giornate a distribuire volantini o ad affollare le segreterie di partito veniva automaticamente escluso dal mondo politico che però avoca a se tutto il potere in ogni distretto della vita dello stato. Una situazione paradossale che si potrebbe così sintetizzare: una moltitudine di saggi sotto il “comando” di una moltitudine di idioti. I movimenti di idee e di proteste che però si vedono nascere, spontanei, in tutti i settori della società; questi ragazzi che hanno idee, che sanno parlare e che hanno tanta energia, rappresentano il fanale che può illuminare la strada del cambiamento e della ripresa ammesso che riusciremo un giorno a voltare pagina.

Antonio Salerno



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