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Le roi s’amus

5/08/2012

Che bello essere re o nobili o potenti! Non tanto perché a queste persone quasi ogni cosa viene concessa, quanto invece per il sincero, devoto, spontaneo ed incondizionato assenso che tutti, o quasi tutti, offrono ad ogni loro azione, anche alle più inique. È questo che contraddistingue il vero potere: pescare l’amore del popolo dal fondo della paura, della rassegnazione. L’individuo che si sente infinitamente più piccolo ed impotente teme persino i propri pensieri, preda com’è della sensazione che il potente possa, in qualche modo, arrivare a conoscerli. Ed è così che si autoeduca alla reverenza, all’adulazione, al servilismo. È quella la fabbrica degli schiavi: la coscienza dei deboli. Sono queste certo cose d’altri tempi, di quando esisteva il libero arbitrio, da libretto d’opera…o forse no? Noi non possiamo dirlo ancora ma Hugo qualcosa doveva aver visto, o sentito riguardo a quel tipo di vita, quando scrisse il suo dramma “ le roi s’amus” e Francesco Maria Piave fu certamente più interessato ai tratti che permangono indelebili e immutati nella natura di ogni uomo che non alle vicende di un re libertino, quando ispirandosi a quell’opera ne trasse il libretto del “Rigoletto”. Così la figura del duca di Mantova diviene quella del potente di turno. La gobba del buffone di corte viene a rappresentare la maledizione portata addosso da una natura crudele e servile, frustrata e vendicativa, che comprende il male solamente quando lo subisce: la sua stessa fisionomia altro non è se non il ritratto di un’anima abietta che ama crogiolarsi ai raggi del potere cosciente però dell’inconsistenza propria e della apparente benevolenza che lo circonda. A chiarire questo stato d’animo sono le parole dello stesso Rigoletto: ”Questo padrone mio, giovin, giocondo, sì possente, bello, sonnecchiando mi dice: fa ch’io rida, buffone... Forzarmi deggio, e farlo!...Oh, dannazione!...”. La corte, così come immaginata nell’operetta, la si ritrova ancora oggi tale e quale, con al centro …la figura della donna. Questo grande enigma della natura, groviglio di sentimenti, i più contrastanti, mescolati insieme a formare un’ essenza fragile, sensibile, voluttuosa e sognatrice; così attaccata alla vita e disposta a cederla per un soffio d’amore. Eternamente confusa, con l’animo battuto da dubbi e sentimenti contrastanti. Le donne, che per questa loro fragilità sono adorate e venerate dai poeti vengono consumate, in ogni tempo, come cibo scadente da uomini grossolani dei quali si invaghiscono. Ma proseguendo nella lettura di questo splendido spaccato della società, lasciatoci da Giuseppe Verdi, giungiamo ai servi. Quale immortale ritratto se ne trova in quell’opera: come cani sotto al tavolo intenti a consumare gli avanzi, a scodinzolare intorno ai piedi del loro signore. Pronti ad azzannare e ad uccidere per esso, per sua sicurezza e per il loro ventre. Rigoletto, servo a sua volta, si rivolge implorante a Marullo chiedendogli di rendergli l’amata figlia ignorando in quell’istante la propria stessa natura. Non sa forse egli che quando si parla ad un servo è come parlare in un tubo: se dall’altra parte c’è qualcuno che ascolta bene, altrimenti il tutto diviene solamente un patetico, pietoso, desolante monologo. Il servo è…vuoto. Non può impietosirsi perché la sua natura non contiene tali sentimenti; non può comprendere perché non gli è mai servito farlo; non può, in prima persona, aiutare nessuno perché egli stesso non è niente. Il servo deve servire e difendere fino all’ultimo il proprio padrone. L’unico suo vantaggio è che ad esso non è richiesto l’atto estremo nel momento in cui il padrone cade in disgrazia: a questa categoria di persone il tradimento in extremis è perdonato. Ma quando il fulgore del proprio signore è al massimo allora sì, bisogna essere pronti anche a quello. Quanta pena c’è nell’osservare queste figure nel momento in cui per obbedienza devono tradire o far del male ad un amico. Quanta sorpresa in quel “La sua figlia…” di Borsa, Marullo e Ceprano. Quanta inutile soddisfazione nel rimprovero mosso da Rigoletto ai vuoti, insulsi, trasparenti colleghi cortigiani. Cosa potrebbero fare ora che Gilda è rinchiusa in camera col duca, quegli esseri che sopravvivono perché qualcuno li nutre; quei miseri che se perdessero quel padrone dovrebbero procurarsene subito un altro. Prima di calare il sipario rimane da dare uno sguardo a lui: il signore; padrone, nobile o potente che sia. La sua apparente forza la troviamo nella consapevolezza che ha della debolezza altrui, dichiarata con queste parole: “ Questa o quella per me pari sono a quant'altre d'intorno, d'intorno mi vedo; del mio core l'impero non cedo meglio ad una che ad altra beltà. La costoro avvenenza è qual dono di che il fato ne infiora la vita; s'oggi questa mi torna gradita, forse un'altra, forse un'altra doman lo sarà, un'altra, forse un'altra doman lo sarà. La costanza, tiranna del core, detestiamo qual morbo, qual morbo crudele; sol chi vuole si serbe fidele; non v'ha amor, se non v'è libertà. De' mariti il geloso furore, degli amanti le smanie derido; anco d'Argo i cent'occhi disfido se mi punge, se mi punge una qualche beltà, se mi punge una qualche beltà”. Completamente concentrato su se stesso il “Don” soddisfa quella incessante esigenza dei propri sudditi di essere dominati. Un tratto tipico che ritroviamo anche in alcuni popoli contemporanei, senza il quale ogni forma di tirannia o tiranneggiamento non sarebbe possibile. Per completare questo quadro di famiglia bisognerebbe aggiungere la figura della cortigiana che vende allegramente la propria virtù in cambio dei fasti di corte ma, essendo essa pur sempre una donna e a causa della cavalleresca considerazione che nutriamo nei confronti del genere a cui essa appartiene, dovrà bastare quanto appena espresso intorno a questa natura. Cosa aggiungere alla fine del nostro viaggio se non che la grande giostra continua il suo triste e monotono giro. Salgono, di volta in volta, nuove figure ad occupare i posti assegnati. Sorridenti o tristi compiono il loro giro e poi scendono, che altri attendono impazienti di prenderne il posto. In alto però vola un falco compiendo, libero, ampi volteggi. Vede la giostra, chi la manovra, coloro che si azzuffano per salire, quelli le cui mani livide vengono staccate a forza dai manubri e scaraventati fuori a calci. Per un po’ gira, a distanza con essa ma poi si volta indifferente verso l’orizzonte limpido e in un attimo scompare inghiottito dal blu…
Antonio Salerno




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