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La recensione*: Un giardino dai sentieri che si biforcano

16/12/2018

Le fughe, nella storia della letteratura, sono sempre frutto di un dolore, di una mancanza; fughe nei paradisi artificiali, alla ricerca di un Eden dove poter vivere in armonia con sé stessi. Spesso le fughe sono dei tarli che ci divorano dall’interno, sono premeditate prima ancora che noi stessi ce ne rendiamo conto: è così labile il confine tra la vera realtà e quella alternativa, che la tentazione di alterarla è insaziabile, irremovibile, si vuole dipendere dal ri-fuggire dalle angosce. Ed ecco che viene sotteso un meccanismo, un processo automatico che si aziona impulsivamente quando sorge la necessità di risolvere un problema, o di dimenticarlo. Estraniarsi da tutto ciò che ci circonda è adrenalina, euforia. È quella stessa adrenalina letta in modo da stravolgere il reale fino a plasmarlo, in un contesto favoleggiato, dove tutto è meno che reale. Così Caterina fugge dalla realtà dogmatica di una Lucania impastata di realismo magico, fugge dai suoi boschi pieni d’ombre per riversarsi in un bosco illusorio, di luce e felicità perdute. Come ci ricorda Umberto Eco: “Un bosco è, per usare una metafora di Borges, un giardino dai sentieri che si biforcano. Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta a ogni albero che si incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto a ogni momento a compiere una scelta.” Nel bosco narrativo de La scordanza , pagina dopo pagina, ci misuriamo con noi stessi; siamo chiamati in causa - in questa storia che inizia con una fuga - a parteggiare per qualcuno, a scegliere per loro, per proteggerli e salvarli dalle nostre paure, non dalle loro: come farebbe una madre. È così che, misurando le nostre paure sulle parole dei personaggi, sul loro vissuto, ci perdiamo nel bosco; non siamo più capaci di distinguere nettamente il bene dal male, ma capiamo che tutto è sfumatura e rifiutiamo di condannare chicchessia. L’apologia della rapidità nelle Lezioni Americane di Calvino, “non pretende di negare i piaceri dell’indugio.” Anche Dora Albanese, così come Eco e Calvino, indugia nel bosco narrativo, ci accompagna in un bosco sempre più fitto: sofferma lo sguardo sul colore azzurro-violaceo dei calanchi alla sera, sul loro partecipare ai dolori dei loro abitanti, in un abbraccio che racchiude insieme i boschi lucani e le case con gli occhi, i vicoli ciechi e bui, l’orizzonte d’argilla. Dora Albanese ci racconta le sofferenze di una madre umiliata e delle sue metamorfosi latenti, dell’infantile volontà di un figlio di salvare i propri genitori da un disamore che li congela, di una nonna, ma prima di tutto madre che, come i fanciulli e i semplici, sembra conoscere il segreto della morte. Una morte, quella che aleggia nelle pagine de La scordanza, tanto temuta quanto anelata, misurata con maestria antica dalle sarte di paese, dai loro occhi attenti. Sullo sfondo si staglia una Lucania tanto arcaica - tra monacelli e filtri d’amore – quanto offesa dal rogo di una modernità apparente che tutto soffoca; solo i contadini rimangono intoccabili, e fieri nel loro valore antico rimasto taciuto, camminano torvi sotto il sole cocente per strade incerte come fossero ombre spezzate, integre solo nel dolore. Un linguaggio secco e mordace padroneggia nel romanzo, a indicare la crudezza di una realtà spogliata dalle illusioni, ma che non rifiuta la forza dei sogni infantili, unici baluardi di umanità in un mare di indifferenza. Fuggire da convenzioni sociali bigotte e violente, fuggire affinché il dolore non diventi un’abitudine come per i volti scavati delle donne di Muggera, per non invecchiare e morire come loro: d’attesa e disperazione. ​ Ma Ulisse ci insegna, durante il suo viaggio, che non esiste fuga senza la volontà, anche ideale, di ritorno. Itaca diventa così il viaggio stesso, e spesso accade che sia la nostra Itaca a inseguirci: a volte le riesce di raggiungerci, per impedire l’assenza di un ritorno. È in una notte tormentata dalle ombre dei suoi errori che Caterina inverte la rotta, di nuovo. Una fuga di dantesca memoria è ciò che le occorre per dialogare con sé stessa ed essere perdonata: conoscere il limitar di Dite prima, per uscire ariveder le stelle poi, cosciente che, dopo tutto, “gli errori dei figli nascono nel corpo delle madri”. Nel silenzio antelucano della sua rinascita, comprende che non c’è alcun posto, nel suo viaggio, per un Virgilio, perché, come in ogni fuga, la fiumara della scordanza si affronta in totale solitudine: con il fiato sospeso tra il giorno e la notte, tra la memoria e l’oblio.

Sara Pugliese
Miriana Borneo


*recensione del romanzo di Dora Albanese 'La scordanza' che ha vinto il Premio letterario C. Levi 2018



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