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Il re travicello

23/03/2012

“Un tempo le rane, che erravano libere nelle ampie paludi, chiesero a Giove un re per frenare con la forza i costumi dissoluti”. Nel rigoglioso VI secolo a.c. un autore di favole, che si narra essere stato di origine frigia, gobbo e schiavo “con il dono della veggenza”, vide con chiarezza il destino di una Nazione del Mediterraneo nel XXI secolo d.c. : questa Nazione si chiamerà “Italia”. Descrisse questa sua visione in una argutissima fiaba dallo stile semplice e lineare che portava il titolo “ il re travicello”. Gli italiani saranno un popolo libero e felice. Lavoratori virtuosi e creativi, ospitati su di una terra benedetta dal Creatore. Questi uomini però non sapranno mettere un freno alle loro scelleratezze e la corruzione, il libertinaggio, l’arbitrio, il furto e quant’altre nefandezze e licenziosità la natura umana possa concepire, diverranno a tal punto un costume comune da risultare intollerabili persino a loro stessi. Esopo inizia con queste parole il suo racconto: “postaquam immoderata libertas, “Romanorum” ”. Gli occhi del geniale narratore vedevano un popolo che, uscito da una crudele dittatura durata vent’anni si era assicurato, a costo di grandi sacrifici, un presente di pace, prosperità e libertà. Raffigurò questo popolo con delle rane e la loro fortuna venne attribuita a Giove il quale, sorridente, esaudì le loro preghiere di ricevere un re, lanciando un travicello dal cielo che cadde nello stagno provocando un gran fragore. Su quel pezzo di legno vi erano incise le leggi morali, etiche, civili della società delle rane. Inizialmente queste, spaventate e motivate, ebbero rispetto del loro re. Ma non passò molto tempo affinché i più temerari e spregiudicati saggiassero la reale consistenza di quel potere che confidava sulla saggezza piuttosto che sulla forza. Così la depravazione si reimpossessò del popolo degli italiani. Sulla Costituzione e sulle Leggi, comprese quelle morali, le rane irriverenti saltavano e sporcavano con le loro deiezioni: deridevano quel simbolo perché non ne comprendevano più l’importanza e la grandezza. Così i più miti tra loro ricominciarono a rivolgere preghiere a Giove il quale, impegnato com’era nelle sue faccende sull’Olimpo ne risultò infastidito. Volse, il Dio uno sguardo a quel popolo, intento agli inganni, dedito ai furti, ai soprusi d’ogni genere e in un lampo fece cadere nello stagno una ferocissima serpe che cominciò subito a divorare le rane che gli capitavano davanti. Forse insieme alla serpe caddero dall’Olimpo altri ferocissimi animali come squali e murene. Tra di essi però si distinse un coccodrillo femmina di nome Enza che assunse un comportamento particolarissimo nella sua specie: versava calde lacrime prima di divorare i propri figli oltre che le rane dello stagno, si intende. Mercurio, impietosito da tanta strage tentò di rappacificare il mondo delle rane col padre degli Dei ma le parole del Cronide furono lapidarie: poiché non avete voluto tollerare il vostro bene, ora tollerate il vostro male!
La morale è fin troppo chiara. A noi rimane da fare una riflessione molto generale che rivolgiamo al ministro Fornero: nel mondo delle rane lavoratrici ci sono poche certezze. Quella di non poter essere sbattuti fuori alla prima occasione dal posto di lavoro rappresenta la più importante: altre forse non ce ne sono. Su quel posto si fonda la loro famiglia, non quella della Elsa dai mille incarichi e l’orticello in campagna, la casa, il futuro dei loro figli. Queste rane operaie che non vivono nella grande America bensì nella piccola Italia sanno che, se per aver reclamato un diritto, protestato per un sopruso, o per un semplice tiramento del padrone perdessero il posto di lavoro a 50 anni la loro esistenza sarebbe finita. Per questo tante migliaia di persone si sono battute prima di loro. Il governo attuale ritiene superfluo tenerne conto pensando di operare in una dimensione cartesiana in cui vi è la “res cogitans”, che sono loro: depositari delle verità assolute, e la “res extensa” che è il popolo, le bestie. Forse è passato un po’ di tempo dall’ultima rivoluzione, qualche mese appena ma ciò non esclude che i Professoroni al governo avrebbero dovuto trarne un qualche insegnamento: la Professoressa Fornero può esercitare il suo ruolo nella società delle rane soltanto perché tutte le rane aderiscono ad un patto, quello scritto sul legnetto, che così può essere riassunto: “le persone convivono in pace nel riconoscimento delle qualità di ognuno e nel rispetto dei diritti e della dignità di tutti”. Non è detto, in assoluto, che l’intelligenza di un professore gli dia un vantaggio sugli altri in assenza di questo patto. Anzi, se la storia ci insegna qualcosa è proprio che è la forza bruta a dare un concreto vantaggio e la forza è dalla parte del popolo. La conseguenza di un atteggiamento vessatorio e disumano nei confronti del popolo è descritta magistralmente dal grande Pasternak nel suo Dottor Zivago quando lui torna e trova la grande casa nobiliare occupata da altri cittadini. In quel caso si era rotto l’equilibrio: a dispetto della teoria di Hobbes, il patto non era più riconosciuto valido da una delle parti e i ruoli sociali venivano di conseguenza rimodellati. Quello però, ricordiamolo, è sempre l’atto finale, preceduto da anni, decenni ed in alcuni casi da secoli di soprusi da parte di alcuni uomini nei confronti dei loro simili. Il nostro è chiaramente un discorso accademico dettato più dallo stupore che si prova nel veder così palesemente ignorata la storia e i suoi insegnamenti che per un reale risentimento nei confronti del Governo Monti. Quando si dice “noi andremo avanti comunque” lo si scrive col “sangue” di esseri umani, delle loro famiglie. Un popolo non va dove decide un “professorino”, soprattutto se neanche eletto, ma dove esso stesso decide di andare e i sacrifici che la società italiana sta così stoicamente affrontando ne danno conferma. Ma con i diritti delle persone e con le loro vite ed il loro avvenire bisogna andarci molto cauti: torni pure alle sue aule, la professoressa Fornero, dove la teoria resta tale e non fa vittime innocenti. Se vorrà, come noi auspichiamo perché ritenuta persona meritevole su molti piani, continuare a fare politica allora dovrà sedere anch’essa tra i banchi e imparare una lezioncina che così inizia: “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale…”. Con questa speranza chiudiamo la nostra riflessione augurando saggezza, moderazione e buon lavoro a tutti.

Antonio Salerno



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