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Presentato in anteprima a San Paolo A. 'moro' di Ulderico Pesce

17/09/2013

Nel teatro-laboratorio Banxhurna di San Paolo Albanese passano sulla scena i momenti più terribili della nostra storia repubblicana. Ulderico Pesce in camicia bianca, jeans e scarpette recita da mattatore la “storia” ancora tutta da chiarire del caso Moro, del nostro Paese, di uomini e di donne che in quei giorni terribili del sequestro videro svanire i propri sogni. Sulla scena tre televisori e un piccolo tavolo centrale, a rappresentare per certi versi il vuoto, la solitudine; l’unico legame con il mondo esterno è un Mivar. Il racconto parte dai fatti del 16 marzo 1978 quando fu rapito Aldo Moro e furono uccisi gli uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Raffaele Iozzino fu l’unico a sparare due colpi di pistola contro i terroristi, prima di morire. Iozzino era di Casola di Napoli e proveniva da una famiglia di contadini. Raffaele, alla Cresima, aveva avuto in regalo dal fratello Ciro un orologio con il cinturino in metallo. Ciro quella mattina del 16 marzo era a casa e casualmente in televisione vide l’immagine di un lenzuolo bianco che copriva un corpo morto. Spuntava da sotto al lenzuolo soltanto il braccio con l’orologio della Cresima. Una scena che diventa la radice del dolore di Ciro, protagonista dello spettacolo. Raffaele, racconta Ciro, credeva nello Stato, e aveva un sogno: vedere Moro Presidente della Repubblica. Ma il governo con i comunisti, la Fiat 130 e l’alfetta non blindate, alcuni apparati dello Stato, le grida, gli spari spezzarono le vite e le speranze di molti. Ulderico Pesce, recita con passione. Racconta da fratello, da sorella, da madre il dolore, l’angoscia, i lunghi silenzi, gli sguardi nel vuoto, il dramma. Grida più e più volte al mondo la tristezza, chiede ad alta voce risposte che non arrivano. Solo il conforto tra parenti, l’amicizia con Adriana Zizzi e la voglia di verità aiutano a vivere, a tenere viva la speranza dei familiari. Le luci si accendono e si spengono, regolano in un certo senso gli alti e i bassi della storia, le luci e le tante ombre. Le immagini di via Caetani, di via Fani lacerano la mente e il cuore, mentre Pesce con il suo monologo ti lega alla sedia, ti fa diventare parte della storia, ti rapisce, cerca di dare risposte, di aprirti la mente. Il dolore di madre diventa sofferenza, passione; il dolore di fratello diventa rabbia e richiesta di verità. E proprio il rapporto tra Ciro e il giudice Imposimato dà la forza agli uomini di sperare, di sognare ancora, “di cercare la vita”. Questa ricerca lo porterà di fronte a molte “stranezze” portate avanti da apparati dello stato deviati, da statisti come Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, messi sotto accusa, nello spettacolo, senza giri di parole, una sentenza postuma, una sentenza senza appello. Ma la denuncia più consistente che Ciro Iozzino fa nello spettacolo riguarda le rivelazioni di Pieczenik, un esperto di terrorismo mandato segretamente in Italia dal governo USA per la gestione del caso Moro. Pieczenik svela una terribile storia: “la decisione finale è stata di Cossiga, e presumo anche di Andreotti: Moro doveva morire.” Moro sente che “altri” vogliono la sua morte e lo scrive in una delle ultime lettere che fanno da laight motive dello spettacolo: “Il mio sangue ricadrà su di voi, sul partito, sul Paese. La linea della fermezza spezzò il sogno di Raffaele e dell’Italia onesta. Nella casa di Iozzino a Roma, giù in fondo, ma proprio in fondo alla Tiburtina, in un sottoscala, resta il legame, ormai svanito, di una famiglia italiana, di una famiglia del Sud verso alcuni “uomini” dello Stato: del salame e una lettera di mamma.

Vincenzo Diego



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