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Storia dell'arrivo del nucleare in Basilicata

12/07/2023

E’ di qualche settimana fa la notizia che la Sogin (la Società Gestione Impianti Nucleari dello Stato Italiano) ha aggiudicato ad un raggruppamento formato da Ansaldo New Clear e Mansud, la gara per la realizzazione di un edificio di processo dell’Impianto di Cementazione Prodotto Finito (ICPF) nel sito Itrec di Rotondella per un valore di 43 milioni di euro. Ma a cosa servirà questo imponente finanziamento? Per rispondere a questa domanda occorre fare un salto indietro nel passato di qualche decennio, verso la metà degli anni Sessanta: è qui che tra il 1965 e il 1970 per volere di Emilio Colombo, allora ministro del Tesoro, nasce l’Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile, meglio conosciuto con l’acronimo ITREC. Ora tra il 1969 e il 1971, grazie ad un accordo tra il CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare) e la statunitense USAEC, all’interno di questo sito giacciono 84 elementi di combustibile irraggiato uranio-torio provenienti dal reattore sperimentale Elk River del Minnesota. Nell'impianto sono state condotte ricerche sui processi di ritrattamento e rifabbricazione del ciclo uranio-torio per verificare l'eventuale convenienza tecnico-economica rispetto al ciclo del combustibile uranio-plutonio normalmente impiegato. In parole povere, ci siamo presi dagli Stati Uniti scorie radioattive. Nel 1987 a seguito del referendum sul nucleare le attività sono state interrotte e da allora è stato garantito (così si dice) il mantenimento in sicurezza dell'impianto a tutela della popolazione e dell'ambiente. Fin qui la cronaca dei fatti; ora però iniziano a palesarsi i dubbi e le domande.

Primo fra tutti: che necessità c’era, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, di creare in Basilicata un sito di ricerca e stoccaggio di rifiuti radioattivi? Una terra, allora come oggi, dedita prevalentemente ad attività agricolo-pastorali, era adatta ad accogliere un sito del genere? E’ vero che c’era stato il boom economico e che si cercava di industrializzare il Mezzogiorno con ricette, a nostro avviso, un po' avventuristiche (leggi strategie di industrializzazione top-down e obbligo delle grandi aziende statali di reinvestire almeno il 40 per cento del fatturato nel Meridione), ma perché non tener conto e stravolgere quella che era la vocazione di un territorio? Per quali motivi imporre dall’alto decisioni che impattano direttamente sulla vita e sulla salute dei cittadini? Interrogativi che a distanza di più di cinquant’anni ancora non sono stati svelati.
Anche perché, come recita una celebre frase attribuita ad Andreotti, “a pensar mele si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”; per dirla tutta, se veramente si voleva industrializzare il Mezzogiorno, perché non impiantare altri tipi di industrie “più pulite” invece che prendere scorie nucleari dagli Stati Uniti e studiarne il loro impatto economico? Non è che in cambio dell’industrializzazione i nostri politici del tempo hanno dovuto accettare altro?
Non sarà certamente un caso, ma mettendo in fila un po' di ragionamenti il quadro che vien fuori non è confortante.
Procediamo con ordine.
L’ISIN, l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la radioprotezione, ha pubblicato l’inventario dei rifiuti radioattivi, aggiornato a dicembre 2021. Nel documento si legge che in Italia cresce il volume di scorie nucleari, determinato soprattutto dallo smantellamento o dalla bonifica dei siti. In questo quadro la Basilicata, secondo i dati ISIN, è la quarta regione italiana per incremento, essendo passata da 3500 metri cubi del 2020 a 3800 metri cubi. La nostra regione resta stabile ai primi posti anche per la radioattività complessiva. Siamo infatti terzi, dopo Piemonte e Campania, con l'8,74% del totale nazionale, come si evince dal grafico.


Tutto questo deve farci stare tranquilli? Assolutamente no, perché come si legge in un rapporto di Legambiente del marzo 2021 “nel giugno 2015 nel corso delle campagne di monitoraggio semestrali di Sogin nell'impianto, le analisi di laboratorio condotte su campioni di acqua prelevati hanno evidenziato in alcuni punti il superamento delle CSC, concentrazione soglia di contaminazione, per alcuni parametri chimici, non radiologici, come trielina, cromo esavalente, ferro, idrocarburi totali. Il 13/04/2018 la Procura di Potenza dispone il sequestro preventivo di tre bacini di raccolta effluenti liquidi e la relativa condotta di scarico a mare. In data 23/04/2018 Sogin comunica, la realizzazione di un impianto di trattamento in loco delle acque di drenaggio. Gli inquirenti avrebbero accertato ‘una grave ed illecita attività di scarico a mare dell’acqua contaminata, che non veniva in alcun modo trattata. In particolare, le acque contaminate, attraverso una condotta, partivano dal sito in questione e, dopo avere percorso alcuni chilometri, si immettevano direttamente nel mare Jonio’. Nell'ottobre 2020 l'Arpab rileva lo sforamento delle concentrazioni soglie di contaminazioni non solo nei piezometri interni al sito dell’Itrec ma anche in quelli esterni ubicati sotto la Statale Jonica 106”. (cfr. Rifiuti radioattivi ieri, oggi e domani: un problema collettivo, Legambiente, marzo 2021). Non possiamo stare tranquilli perché dagli atti della Commissione Parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nella seduta del 11 maggio 2010 viene ascoltato il maresciallo dei Carabinieri in pensione Niccolò Moschitta il quale afferma che “il dottor Pace ci disse che Matera viveva una situazione molto pericolosa, perché nella centrale nucleare della città, dentro una piscina, vi erano 64 barre di uranio, acquistate prima della moratoria dalle centrali Helk River degli Stati Uniti. La piscina era stata realizzata nel 1960, quando ancora la normativa antisismica non esisteva. Matera è una zona sismica. Quindi, ci mostrò la gravità della situazione e ci chiese come avremmo potuto prenderla in mano. Ci disse che il personale dell'ENEA gli faceva muro davanti, che avrebbe voluto fare degli accertamenti e proseguire le operazioni, che lo invitavano a fare delle verifiche personalmente, ma che lui non sapeva dove andare a controllare.
La situazione era incresciosa, se pensiamo - queste sono le parole che sono state pronunciate allora - che il problema di Chernobyl è nato da mezza barra di uranio e che a Matera ve ne erano 64”. E non possiamo stare tranquilli perché come affermato Nicola Maria Pace, ex Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trieste sentito nel 2005 presso la Commissione bicamerale sul ciclo rifiuti “...parlo di iracheni in quanto avevo elementi acquisiti dalle indagini sul Trisaia di Rotondella, che verificavano il fattore di maggior rischio nel centro di Rotondella, ricollegato alla giacenza di rifiuti liquidi ad alta attività dentro contenitori «marci», che avevano già dato luogo a tre incidenti nucleari accertati. Si trattava di un impianto che per trent’anni era stato mascherato come centro di ricerca e su cui il presidente dell’Enea dovette ammettere una situazione di tipo «cimiteriale», con una pessima guardiana per i materiali depositati”.
Alla luce di tutti questi fatti, ci domandiamo: quale futuro si vuol progettare per la Basilicata? Quello di un deposito nazionale di scorie nucleari? E soprattutto, ancora una volta, possiamo ancora parlare di Basilicata “isola felix”?

Nicola Alfano





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