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Il difficile avvio del Centro Sinistra in Basilicata

25/05/2023

A partire dalla fine degli Anni Cinquanta anche in Basilicata il dibattito politico si concentra intorno alla questione della programmazione delle risorse regionali e, soprattutto, sullo sforzo di dar vita al centro sinistra.
Questo centro sinistra doveva nascere, come afferma Nino Calice, all’insegna della riduzione del peso della questione meridionale e, al suo interno, della questione contadina, idoleggiata dal PCI ma incomprensibile ai nuovi settori industriali in via di sviluppo. Di questa nuova tendenza si fecero carico schiere di tecnici e industriali del capitale pubblico e degli enti di Stato, in cui si era ramificato il sistema di potere della DC, trovando spazio ed elaborazione culturale in riviste quali “Nord-Sud”, cui in Basilicata facevano da battistrada le iniziative politico-culturali del “Movimento di Comunità”, finanziato da Adriano Olivetti, e della rivista “Basilicata”. Di queste riviste era chiara una impostazione politica tesa a favorire quello che veniva definito «il revisionismo culturale e politico del PSI». Non era un caso se “Basilicata”, in questo periodo, andava sviluppando una campagna per la riunificazione socialista puntando anche sulla crisi del PCI. Scriveva Pietro Valenza su “Cronache meridionali” nel gennaio 1957 che «pare abbastanza delineata la tendenza del Movimento Comunitario a riempire il vuoto politico esistente tra la DC da una parte e il PCI e il PSI dall’altra, con la costituzione dall’alto e in forme strumentali, di una specie di terza forza laica capace di erodere forze al PCI, premendo al tempo stesso sul PSI per un suo allineamento sulle posizioni socialdemocratiche...esso tende di fatto ad isolare gli intellettuali dal movimento operaio e contadino».
Il PCI, dal canto suo, anche sulla base dei fatti nuovi determinatisi nella realtà produttiva della regione, continuava a richiamare l’attenzione sulla riforma agraria generale e sui problemi delle aree interne, sulle possibilità di un rapporto equilibrato fra media e piccola imprenditorialità industriale e di un ammodernamento del mercato interno che facesse leva sugli investimenti delle Partecipazioni Statali. Il partito comunista, però, incentrava in modo particolare l’attenzione sui nodi politici dello sviluppo e della politica di programmazione, reclamando l’autogoverno regionale e la democratizzazione di tutti gli enti e strumenti dell’intervento pubblico, sottolineando come in quel clima era certo essenziale la valorizzazione delle risorse energetiche e delle materie industriali, ma senza una domanda sostenuta dalle campagne sarebbe stato più fragile lo stesso sviluppo industriale auspicato. E qui ritorna il discorso che Giorgio Napolitano tenne alla Camera dei Deputati nel febbraio del 1961, sulla necessità di non considerare chiuso il discorso della riforma agraria, pur aprendo alla possibilità di un allargamento del processo di industrializzazione meridionale. Come si evince, il partito comunista concentrava i propri sforzi su questi problemi, sottolineando i limiti della struttura economica di una regione meridionale particolarmente arretrata come la Basilicata denunciando, altresì, le responsabilità politiche nel lasciare mano libera, per le decisioni più importanti, ai grandi gruppi industriali, riservandosi spazi di potere nella gestione del collocamento, del territorio, delle rendite edilizie e dei lavori pubblici. Da qui l’asprezza dell’opposizione e la profondità delle divisioni tra PCI e DC all’inaugurazione del centro sinistra e di qui l’attenzione per i problemi legati al funzionamento delle istituzioni, della partecipazione del controllo democratico, in fin dei conti per la gestione del potere.
D’altra parte, il PSI pur concordando sui divari crescenti di reddito e occupazione, sull’esistenza di squilibri zonali e settoriali, rimetteva nella politica nazionale di sviluppo, alle virtù espansive del meccanismo industriale settentrionale e alle capacità di direzione del sistema delle Partecipazioni Statali, il superamento di quei divari e la soluzione di quegli squilibri. Di quel sistema produttivo si valorizzavano gli elementi di novità e di propulsione che in qualche decennio di regime repubblicano avevano modificato il tenore di vita. Anche in Basilicata, ad esempio, nel 1962 i salari si erano quadruplicati, i consumi di carne aumentati del 20 per cento e il reddito netto era più che raddoppiato.
Con queste premesse, dopo la tornata elettorale amministrativa del novembre 1960, la prima giunta di centro sinistra si costituì a Melfi, in funzione chiaramente competitiva con Potenza e di riequilibrio dei poteri regionali. L’afflusso di risorse pubbliche, lo sviluppo del credito, il qualificato intervento dello Stato nell’industrializzazione della Regione sembravano porre sul tappeto concrete possibilità di intervento nei trasporti, nelle abitazioni, nell’edilizia scolastica e ospedaliera; sembravano mettere a portata di mano il controllo nella redistribuzione delle risorse, gli interventi sulla produzione e sui mercati e consentire slancio alle ambizioni di pianificazione e di riequilibrio dei poteri e delle possibilità di sviluppo.
Però già nel 1966, con l’insediamento del nuovo Comitato per la programmazione da parte del ministro Pieraccini, messe da parte le speranze nella forza propulsiva e trainante dell’industria, si contestò una politica di concentrazione degli investimenti in poli ristretti, si riscoprì il ruolo di un’agricoltura non solo irrigua e di pianura e si reimpostò in termini nuovi, almeno culturalmente, il rapporto fra investimenti, occupazione e redditi agro-industriali. Ma tutte queste erano proposte contrastate e non corrispondenti agli orientamenti della politica dell’intervento straordinario, sanciti dalla legge del 1965 di rifinanziamento della “Cassa”. Tale legge, concentrando per poli e aree ristrette non solo gli investimenti industriali ma le stesse dotazioni civili e infrastrutturali, perseguiva esplicitamente l’abbandono dei centri urbani e delle are interne del Mezzogiorno e la svalorizzazione delle risorse, non solo agricole. Tutti questi avvenimenti misero a nudo quelli che erano i limiti di una operazione politica che nei fatti portò il PSI ad una gestione allargata e non sempre razionalizzata dell’esistente sociale e istituzionale. Il successivo successo elettorale della DC alle elezioni del 1968 (più sei punti) mostrò chiaramente le difficoltà del PCI nel gestire la fase di movimento sociale e politico che si era aperta con l’avvio dell’industrializzazione e, insieme, quelle del PSI a scalfire il sistema di potere della DC e a dare un diverso indirizzo all’economia e democrazia regionale. Questo perché le dinamiche di fondo della struttura economica regionale continuarono ad operare nelle direzioni definite negli anni Cinquanta, senza che gli stessi insediamenti industriali riuscissero a modificarne il corso secondo gli auspici dei programmatori e l’impegno dei socialisti. I problemi sul tavolo rimanevano sempre gli stessi, anche a distanza di un decennio e più. Vero è che il centro sinistra si inaugurò in Basilicata intorno al 1963, proprio nel momento di passaggio da un periodo di vigorosa espansione ad una fase di drastico rallentamento produttivo. Ma è anche vero che se in Basilicata profondamente convinte furono le speranze riposte nella programmazione nazionale, altrettanto profonda fu la disattenzione ai fatti specifici della struttura economica regionale, alla valorizzazione delle sue risorse, al sistema di potere della DC, di cui si accettò o si subì la gestione e l’uso. Ed è a questo punto che la critica si faceva apertamente politica: il centro sinistra non aveva fatto «le scelte essenziali», si era fidato di meccanismi spontanei, aveva dimenticato che per «scegliere, controllare e verificare» era necessario un organismo pubblico che riuscisse a sintetizzare compiutamente le istanze della comunità regionale e tradurle in concreti atti operativi.


Nicola Alfano



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