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L’industrializzazione in Basilicata: l’eredita’ lasciata ai lucani

3/05/2023

Rocco Mazzarone (1912-2005), meridionalista, amico e collaboratore dei grandi meridionalisti della prima ora quali Scotellaro, Levi, Rossi-Doria, De Martino, Adamesteanu ed altri, scriveva a proposito degli insediamenti industriali che andavano sorgendo tra la fine degli Anni Cinquanta e i primi Anni Sessanta in Basilicata: «Le industrie in Val Basento e a Tito Scalo sono slegate da una chiara strategia produttiva. Tutto ciò avrebbe dovuto insospettire il ceto politico lucano che invece si è lasciato liquichimizzare». Cosa vuol dire questo? Qual era la strategia della classe dirigente lucana in merito all’industrializzazione?
E’ un argomento di non facile interpretazione, andare a “giudicare” a distanza di sessant’anni le strategie politiche ed economiche messe in campo dalla classe politica e dirigente dell’epoca è sempre un pò rischioso. Ma, dall’altro canto, questo è il compito della Storia e della corretta informazione, cercare di fornire non certezze o verità assolute, ma proporre soluzioni, nuove interpretazioni cercando di avvicinarsi il più possibile alla verità dei fatti. Ora seguendo questa linea interpretativa, e tenendo in considerazione l’assunto pocanzi menzionato di Rocco Mazzarone, proviamo a rispondere alla domanda iniziale, qual era la strategia della classe dirigente lucana in merito all’industrializzazione della Val Basento? Probabilmente non c’era nessuna strategia, cioè nessuna visione che disegnasse nel lungo periodo quello che doveva essere il futuro della Regione. Quello che preoccupava maggiormente i politici nostrani dell’epoca era soltanto il mantenimento del potere e del consenso elettorale, o meglio il consenso elettorale affinché il potere restasse ben saldo nelle loro mani. Questo era l’unico scopo e per raggiungerlo venivano proposte le soluzioni politiche ed economiche più disparate: si è partiti ad in inizio Anni Cinquanta con la Riforma Agraria per passare, un decennio dopo, all’industrializzazione con la creazione dei cosiddetti “poli industriali” fino ad arrivare alla metà degli Anni Settanta quando, a livello globale inizia a rallentare la spinta propulsiva della crescita economica accentuata anche dalla crisi petrolifera del 1973-1974 che manda in crisi i progetti industriali, si passa all’assistenzialismo di Stato. Tutto e il contrario di tutto, senza nessun disegno di lungo respiro per il futuro della Basilicata. Ma soffermiamoci sull’affermazione di Mazzarone di cui sopra; egli afferma che la classe politica del tempo non portava avanti una chiara strategia produttiva e che le varie industrie che sorgevano in Val Basento e a Tito Scalo in sostanza erano cattedrali nel deserto in quanto prive di una loro mission industriale e produttiva. Ma allora qual era lo scopo di questa politica? Non sappiamo cosa pensasse a tal proposito Mazzarone (sarebbe stato bello e istruttivo conoscere il suo pensiero in merito!), però sappiamo chi promosse queste politiche e qual era il fine ultimo dei proponenti. Bene, i fautori di questa politica furono i vari dirigenti della Democrazia Cristiana e il loro fine ultimo era sempre il mantenimento del potere. Recentemente (2022) è uscita una nuova edizione di un pregevole studio del compianto Giorgio Galli, “Storia della DC 1943-1993. Mezzo secolo di Democrazia Cristiana”, nel quale l’accademico italiano delinea con dovizia di particolari quelle che erano le strategie politiche dello Scudocrociato; in modo particolare si afferma come la Dc, da De Gasperi in poi, concepisse il ruolo del partito come partito di governo, il solo partito che potesse guidare il Paese. Va da se che una concezione del genere presupponesse tutta una serie di politiche che avevano come scopo e fine ultimo il mantenimento del consenso popolare. Ed è il tipo di politica che ritroviamo in Basilicata e di cui ci stiamo occupando in questa sede. Come abbiamo detto, si passa in un decennio da una politica di sostegno all’agricoltura, portata avanti con la Riforma agraria, ad una politica industriale: cos’è che ha determinato questo cambio di rotta e di visione di politica economica? Sicuramente la scoperta di giacimenti di metano nel sottosuolo della Val Basento ed insieme l’azione di colui che è considerato l’artefice del miracolo economico italiano, Enrico Mattei. Ma proprio la figura del fondatore del cane a sei zampe merita di essere analizzata in questo contesto. Analizzata perché Mattei non è certo il classico imprenditore estraneo alla politica, tutt’altro. Come affermato da Galli nello studio pocanzi menzionato, Enrico Mattei, regolarmente iscritto al partito fascista, nell’agosto 1944 diviene rappresentante della Dc nel comando generale del Corpo volontari della libertà fino a far parte del primo Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana del 1946 e ad essere poi eletto parlamentare sempre per la Dc nella prima legislatura dal 1948 al 1953. Ed è proprio in questo periodo che il presidente dell’Eni diviene il principale punto di riferimento all’interno della Democrazia Cristiana dell’espansione del potere politico nel settore economico e in tale operazione era fortemente avversato da don Luigi Sturzo. Quindi non sorprende come, tra la fine degli Anni Cinquanta e l’inizio degli Anni Sessanta, insieme a Fanfani Presidente del Consiglio e Colombo ministro dell’Industria, sia tra i principali fautori dell’industrializzazione della Val Basento. Ma questo, come abbiamo già detto, altro non rappresentava se non il nuovo corso che aveva intrapreso la Democrazia Cristiana a partire dal 1952 e che prevedeva, tra l’altro, anche la sostituzione degli ex popolari dalla propria classe dirigente per crearne una nuova legata all’espansione del potere politico nel settore economico. Poi certo la presenza nel partito e nel governo di una personalità come Emilio Colombo ha reso possibile che uno dei primi atti di questo nuovo corso politico iniziasse proprio in Basilicata, tra i calanchi della Val Basento. Ma in concreto, tutto questo quale eredità ha lasciato alla Basilicata e ai suoi cittadini? A più di sessant’anni da quel fatidico 29 luglio 1961, oltre a qualche decennio di benessere economico, qual è il costo sociale, economico ed anche sanitario che i cittadini lucani devono pagare per quelle scelte? Perché non si è continuato a puntare sullo sviluppo dell’agricoltura visto che da neanche un decennio si era dato il via alla Riforma agraria e che soprattutto non c’erano le pre-condizioni strutturali per poter far partire un progetto industriale di così ampio respiro?
Anche in questo caso le uniche risposte che possiamo dare ai nostri interrogativi sono i dati dell’Istituto Superiore di Sanità il quale, tramite il programma di ricerca “Sentieri”, ha affermato che la Val Basento e la zona di Tito Scalo (quindi un’area comprendente i comuni di Ferrandina, Pomarico, Pisticci, Salandra, Grottole, Miglionico, oltre appunto la zona di Tito) rientrano tra le 44 aree inquinate in Italia oltre il limite consentito dalle legge e che solo il 26 febbraio 2003, come si legge dal sito del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, è stato emanato il Decreto relativo alla individuazione e perimetrazione del SIN (sito interesse nazionale da bonificare). Il successivo “Accordo di Programma per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza e bonifica delle aree comprese nei Siti di Interesse Nazionale di Tito e Area Indusitriale della Val Basento” è stato sottoscritto il 4 giugno 2020 dal Ministero dell’Ambiente e la Tutela del Territorio e del Mare e dalla Regione Basilicata. Ancora si legge nel rapporto dell’Istituto di Sanità che: “...il decreto di perimetrazione del Sin elenca la presenza delle seguenti tipologie d’impianti: chimico e produzione cemento amianto per la Val Basento e chimico, amianto siderurgico, discarica per Tito. Non poche sono le persone a rischio di malattie tumorali, asbestosi e mesotelioma, patologie dell’apparato respiratorio, genito-urinario, renale e circolatorio.”

Nicola Alfano



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