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La voce della Politica

Pace e Brienza sul 25 esimo dalla morte di Pasquale Di Lorenzo

13/10/2017

“Pasquale Di Lorenzo fu scelto come obiettivo simbolico della vendetta mafiosa perché era un poliziotto integerrimo e per nulla incline al compromesso”. Così ricordano colleghi e conoscenti, il comandante reggente del carcere di San Vito ad Agrigento, ucciso da due sicari per ordine di Totò Riina venti cinque anni fa. Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e la risposta dello Stato con il carcere duro del 41-bis, la criminalità siciliana decise di eliminare un agente penitenziario per ogni carcere della Sicilia. Di Lorenzo, già dipendente della casa circondariale di Potenza, sposato con una nostra corregionale e padre di due ragazze, fu ucciso il 13 ottobre del 1992 a Porto Empedocle. Un altro martire e servitore dello Stato che non intese scendere a patti con il sistema mafioso imperante nella Sicilia, da poco privata, con lo stesso sistema, dello spirito di servizio dei giudici Falcone e Borsellino. Di Lorenzo rappresenta l’esempio dell’abnegazione al lavoro e ai valori della legalità e della sovranità dello Stato democratico che non arretra di fronte alla criminalità. Anche dalla Basilicata, nel giorno del triste ricordo (sono passati 25 anni dal barbaro assassinio), si levano attestati di stima e riconoscenza per chi ha dato la vita per il proprio Paese. Le istituzioni italiane, in un momento apparentemente più tranquillo in cui il sistema mafioso sembra sulla difensiva, hanno l’obbligo di non abbassare la guardia e di continuare ad innalzare la bandiera della legalità e della democrazia. La famiglia del comandante Di Lorenzo (che vive a Potenza) ha avuto la pur magra consolazione di poter vedere condannati gli esecutori materiali, processati solo grazie al pentimento di un componente del commando, così come i mandanti. Alla moglie e alle figlie la vicinanza e solidarietà per una tragedia che lo Stato democratico non riuscì ad impedire. Ma la Basilicata continua a chiedere giustizia per un altro martire caduto sotto i colpi dell’estremismo rosso degli anni ’70. Il 6 giugno del 1978 il maresciallo Antonio Santoro di Avigliano fu ucciso ad Udine dal brigatista Cesare Battisti. Il primo di una lunga scia di sangue ordita dai Proletari armati per il comunismo. Da allora la famiglia Santoro, al pari di tante altre che piangono i propri congiunti, attendono che Battisti sconti nelle patrie galere le condanne che la giustizia italiana gli ha inflitto. Invece, da anni, con il salvacondotto dell’allora presidente brasiliano Lula, il terrorista continua a vivere in libertà a San Paolo e non si riesce a riportarlo in Italia.

Confidiamo nel lavoro del governo italiano e del ministro degli Esteri Alfano per ottenere la riconsegnare al nostro Paese del terrorista. Le polemiche degli ultimi giorni, dopo il tentativo di fuga in Bolivia, si spera possa convincere tutti che chi ha ucciso distruggendo la serenità di famiglie e di intere comunità, debba scontare la pena e non rimanere perennemente protetto da un ambiguo sistema che garantisce un’assurda impunità a chi ha combattuto in “difesa” dell’arcipelago ideologico comunista. Altrimenti rischiano di rimanere vani e non riconosciuti dallo Stato il suo sacrificio e la stessa intitolazione della casa circondariale di Potenza al maresciallo di Avigliano. Per fortuna il cerchio sembra stringersi e un accordo i due Stati potrebbe, a breve, far applicare ai danni dell’ultimo dei Pac le sentenze della giustizia, evitando che il terrorista torni a definire il nostro l’Italia come un “Paese arrogante e complottista”.


Il Capogruppo
Avv. Aurelio Pace




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