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Bufera sui rapporti di autovalutazione di alcuni istituti scolastici

12/02/2018

Il clima di grande tensione in cui il nostro Paese, da un po' di anni, sta vivendo, si ripercuote, ora, anche sul mondo dell’Istruzione.
Lo dimostra il linguaggio utilizzato da alcuni Istituti scolastici per la compilazione dei rapporti di autovalutazione.
La polemica è esplosa a seguito della pubblicazione di R.A.V. relativi ad alcune scuole, come il Liceo ‘Visconti’ di Roma, la scuola ‘Giuliana Falconieri’ dei Parioli, il ‘Parini’ di Milano, il ‘D’Oria’ di Genova.
Dichiarazioni “classiste” che ritroviamo nel linguaggio utilizzato per descrivere la popolazione studentesca, essendo richiesta tale descrizione da una delle voci del rapporto di autovalutazione che gli Istituti devono redigere.
Si parla, infatti, di estrazione sociale degli studenti, di reddito, di nazionalità, fino ad arrivare ad una vera e propria stigmatizzazione di alcune categorie di studenti.
«Gravi e persino classiste», le ha definite la Ministra della Pubblica Istruzione Valeria Fedeli. Se, da una parte, la Ministra dichiara che «verranno presi provvedimenti», dall’altra, i dirigenti chiariscono che si sono limitati a rispondere a domande presenti all’interno del Rav.
«Frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate travisano completamente il ruolo della scuola», ha ribadito la Ministra in una nota stampa, a margine di un incontro con gli studenti a Pisa (da secoloxix.it)
«Non posso che stigmatizzare il linguaggio utilizzato da alcune scuole nella compilazione dei rapporti di autovalutazione. Alcune frasi appaiono particolarmente gravi, persino classiste. In questo modo si travisa completamente il ruolo della scuola». Così, il ministro all’Istruzione, reagisce al caso delle “pubblicità classiste” di alcune scuole superiori italiane (da secoloxix.it)
Il caso delle autovalutazioni classiste che ha coinvolto il liceo genovese ha scatenato, in città e sui social, un acceso dibattito. «A scuola di razzismo. Docenti, educatori, genitori e studenti, dovremmo indignarci tutti e anche alzare un po’ la voce», dice in un post l’insegnante e scrittrice Emilia Marasco. I commenti a seguire sono carichi di disapprovazione. Eppure, si scopre che al Ministero, la scuola genovese è l’unica tra tutte quelle citate nell’inchiesta giornalistica, su cui non si è iniziato ad indagare.
La dirigente del D’Oria continua: «lo ammetto, forse abbiamo utilizzato una formula ingenua per dire che la nostra didattica è agevolata dal fatto di avere un contesto socio culturale uniformemente medio alto - aggiunge - ma, nella stessa scheda, scrivo anche che la scarsità di studenti stranieri limita la possibilità di un più ampio confronto culturale all’interno dei gruppi-classe» (da secoloxix.it)
La scuola, luogo privilegiato dell’incontro, del confronto e dell’integrazione, è divenuto nuovo campo di battaglia delle diverse e contrapposte ideologie che, più che guardare alla persona umana, si concentrano sulle diversità legate alla nazionalità di origine e alla estrazione sociale.

Chi ha utilizzato, in maniera inconsapevole e consapevole, lo scorretto “linguaggio classista”, dovrebbe ricordarsi delle parole che i padri costituenti hanno utilizzato per redigere uno degli articoli più importanti della nostra Carta Costituzionale, che è, o dovrebbe essere, la carta di identità della nostra società.
L’art. 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza, prevede che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
I padri costituenti, non si sono accontentati del principio di uguaglianza e pari dignità sociale di tutti, ma hanno chiesto alla Repubblica di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Essere una buona scuola, non significa essere una scuola che si rivolge solo a determinati ceti sociali.
Essere una scuola buona significa essere una scuola capace di rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando la libertà e l’eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone, anche quelle più disagiate.


Rita Abitante

questo articolo è frutto dell'esercizio di lettura dei giornali, stesura di un testo che sviluppi i punti di vista di una specifica notizia di cronaca e citazione delle fonti nell’ambito del programma di alternanza scuola-lavoro svolto presso la redazione de lasiritide.it



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