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Senise, Montecotugno e quei giardini vinti dal deserto

18/09/2017



“L’acqua può diventare un nemico anche se si tenta di controllarla. In Lucania, i fertili orti di Senise sono condannati a sparire nell’invaso di una diga”. Così commentava una voce fuori campo in un telegiornale degli anni Sessanta, raccontando quello che, da lì a pochi anni, sarebbe accaduto nella fertile Senise: il progetto di una diga, in località Montecotugno, necessario per portare la risorsa idrica alla vicina Puglia. Centinaia di ettari di terreni, così belli da essere ancora oggi ricordati come ‘i Giardini’, divisi tra latifondisti e innumerevoli piccoli proprietari che lì coltivavano peperoni, lattughe e frutta, nel giro di pochi anni sarebbero scomparsi sotto le acque dell’invaso più grande d’Europa in terra battuta. “I Giardini di Senise sono come una fabbrica all’aperto”. Lo scrisse il dottor Canio Glinni, che nel 1969 stilò la relazione per il piano generale di esproprio dei terreni. 2.770 ettari di terreno interessati, di cui 600 demaniali e 2.100 di terreni coltivati e privati. Oggi quei giardini sono riemersi. La terra, vinta da milioni di metri cubi di Sinni fermato al di qua del muro di sbarramento, riemerge grazie all’acqua che non c’è. Vista da lontano la distesa pare un’enorme piattaforma di creta sulla quale qualcuno ha disegnato una fitta trama di tratti d’inchiostro che si intersecano all’infinito. Da vicino, quei tratti sono solchi profondi che dividono le zolle in tanti tasselli di un unico grande puzzle e, in mezzo, ci sono dei minuscoli Canyon che diventano più molli quanto più ci si avvicina a quello che resta dell’acqua. Ogni tanto, qua e là, ci sono piccoli cumuli di pietre che riemergono a loro volta dalla finta pianura dell’argilla spaccata. E’ sconvolgente la considerazione di come quelle pietre siano rimaste lì, in quel punto preciso, sotto l’acqua, per oltre trent’anni. Erano case. Erano le abitazioni rurali dei contadini senisesi che, per la verità, avevano l’abitudine di tornare in paese al tramonto, non senza passare per ‘Villa Rossi’: un bar, una trattoria, un autogrill ante litteram, che spezzettava i viaggi di chi percorreva la statale che collegava il Tirreno e lo Jonio e che attraversava, in parte, quelle terre. Anche il vecchio tracciato della Statale o quello che ne rimane, è ora riemerso dall’acqua. Percorrerlo equivale ad attraversare un paesaggio quasi lunare, attraversato da un silenzio rotto solo dal richiamo degli aironi cenerini, dei gabbiani o delle anatre. Poi, improvvisamente, si sente rumore di acqua che scorre. Non è il Sinni. Tra i monumenti riemersi c’è anche quella grande fontana che era al centro di un piccolo borgo di case e ricoveri per animali. L’acqua scorre ancora da quella fonte ed è freschissima. Più in là, a monte, dove si vede ancora il ponte sul Sinni, nello spazio in cui i ragazzi degli anni Ottanta avevano ricavato un campo da calcio prima che anche lì arrivasse l’acqua della diga, si sente il rumore dei campanacci delle mucche al pascolo e il belato delle pecore, protette da autorevoli e docili maremmani. Un gruppo di motociclisti è arrivato, sabato mattina, per una foto di gruppo in questo scenario. “Qui era tutto pieno d’acqua, era uno spettacolo” ha detto uno di loro, con l’accento che sembrava siciliano. Cosa realmente riempisse queste valli e queste colline, però, pochi forestieri lo ricordano davvero.


La storia di Montecotugno era cominciata nel 1925, con le prime idee di irrigazione in Puglia e Basilicata. Negli anni Cinquanta si delineò il progetto della realizzazione di un invaso artificiale lungo il Sinni, che avrebbe consentito di far fronte all'emergenza idrica della Puglia. Ma è nel 1965 che l'Ente per lo Sviluppo dell'Irrigazione ha tra le mani il futuro di Senise con il progetto della costruzione di una diga in località Montecotugno. Il progetto è dello studio tecnico dell’ingegnere Giuseppe De Rogatis di Roma. Un progetto grandioso, ambizioso, una delle infrastrutture più imponenti mai realizzate nel Mezzogiorno d’Italia e non solo. Dal futuro muro di sbarramento sarebbe stato possibile sovrastare centinaia di ettari di terreni fertili. Ma che cosa faranno gli “ortolani” quando l’acqua avrà coperto tutto? E’ possibile reperire zone possibilmente pianeggianti e vicine all’abitato e sottoporle ad irrigazione a mezzo pompaggio di acqua dal futuro lago? No, perché è un’operazione difficile e costosa. E allora si preferì concedere a chi perdeva i terreni sotto l’invaso qualcosa in più in materia di stime economiche. “E tra i contadini più adulti, ormai prossimi alla pensione e i giovani, che potranno trovare impiego nei futuri cantieri almeno per sette o dieci anni, il problema dello sviluppo sarà affrontato” si leggeva nelle relazioni ufficiali. Accanto a questo c’erano anche le proposte da adottare a sostegno dell’economia senisese: la costruzione di uno stabilimento ittiogenico; un progetto per la viticultura; il riordino irriguo del Serrapotamo; la costruzione della superstrada Sinnica. I lavori cominciarono nel 1971, quando l'impresa Lodigiani piantò il campo di lavoro e i cantieri vennero ufficialmente aperti. Contadini e figli di contadini lasciarono la terra e diventarono operai. Ma il progetto diga fu grandioso non soltanto a livello infrastrutturale perché si portò dietro anni di fermento sociale, culturale ed economico.
Perché prima dei centomila di Scanzano c’è stato il decennio senisese, il fermento di un popolo in bilico tra la terra e l’industria, tra la speranza e la paura. Anni che Raffaele Soave, storico sindacalista e amministratore scomparso improvvisamente in queste ore, ha raccontato in quel libro che tutti i lucani dovrebbero avere a casa: ‘La diga di Senise. Lotte, conquiste, inadempienze’. Quella storia, negli anni, è diventata un testo di teatro civile grazie a Ulderico Pesce e a lasiritide.it che oggi, per ricordare Raffaele, vogliono portare in scena proprio sull’argilla dei giardini riemersi dall’acqua. Anche perché, ad oggi, la vertenza Senise è aperta più che mai.


Mariapaola Vergallito





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