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Lettera aperta al San Carlo e al Don Uva: 'gli anziani non sono un fardello' |
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21/11/2014 |
| Riceviamo e pubblichiamo la lettera aperta che il signor Paolo Baffari ha inviato all’indirizzo dei dirigenti del San carlo e del Don Uva di Potenza, in merito alla scomparsa di una sua zia, nel mese di pttobre.
Gent.mi Direttori,
a seguito della scomparsa di una mia carissima zia, avvenuta all’inizio dello scorso mese di ottobre, all’interno di una gelida ambulanza che la trasportava con urgenza dal Don Uva al Pronto Soccorso, con mente più lucida pongo, a voi e a noi tutti, alcune domande e riflessioni.
Perché quando si varca la soglia di un ospedale si ha subito la sensazione di perdere qualsiasi identità - tutto ciò che si rappresenta, l’impegno nella vita lavorativa e sociale, la propria intelligenza e cultura e saperi, la sensibilità e persino l’umanità - tutto si annulla e si diventa un numero o un congegno di una catena di montaggio, da trattare come tale?
Mi chiedo, ogni volta che, per sventura, mi capita di varcare quella soglia, se un camice bianco conferisca il potere mistico di vita o di morte, il potere discrezionale di trattare le altre “persone” – degenti-clienti e loro parenti e amici - in modo dignitoso, rispettoso e umano (perché alcuni medici possiedono una naturale sensibilità personale) o, invece, con sufficienza, arroganza e supponenza, come mi è capitato, qualche settimana fa, presso il reparto di Oculistica dell’Ospedale di Venosa, allorquando a una mia semplice e gentile richiesta di informazione, una certa dottoressa… ha risposto con tono infastidito e seccato, quasi si rivolgesse a un sub-umano…
Ho la sensazione che, di prassi, si ritenga sufficiente ed esauriente un intervento chirurgico e/o una terapia più o meno intensiva di farmaci e di analisi chimico-fisiche e controlli elettronici - come previsti per procedura - per assicurare uno stato di guarigione o di salute, assimilando, appunto, l’uomo a una macchina; senza curarsi, piuttosto, delle condizioni ambientali di degenza e delle implicazioni emozionali e psicologiche, che in una persona malata sono particolarmente vulnerabili e incidono in modo considerevole sul percorso di guarigione: in tal senso non basta un camice bianco-verde e qualche decina di esami, pre e post laurea, sostenuti all’Università per assicurare tutto ciò.
Quando si tratta di persone anziane, poi, soprattutto se ultraottantenni - come nel caso di mia zia, ricoverata per circa dieci giorni in terapia intensiva, presso il vostro reparto di Neurologia - si ha la sensazione che siano considerate quasi un fardello, faticoso e ingombrante, di cui disfarsi non appena un’infallibile diagnosi medica (supportata dai parametri su descritti) ne abbia sancito il trasferimento in quel luogo onirico denominato “Don Uva”: una sorta di “area di sosta di anime”, in attesa di essere traghettate da una riva all'altra del fiume Acheronte.
Soltanto questa prefigurazione, infatti, può spiegare quanto accaduto a mia zia (ma potrebbe riguardare ciascuno di noi) nell’attimo di un’ora, quando nella sera del 4 ottobre scorso, solo dopo aver manifestato asfissia e vomito di bile, è stata trasportata da Caronte, in forma di ambulanza, dalla riva Don Uva alla riva Pronto Soccorso, dove è giunta già esanime, senza che nessuno si accorgesse in tempo di cosa stesse accadendo; eccetto me, povero parente-visitatore, privo di sofisticate nozioni mediche, ma molto attento a osservare e sentire il “linguaggio non verbale” degli occhi e del corpo.
Chiedo, a Lei e a tutti noi, se sia possibile consegnare all’Acheronte esseri umani ancora vivi, nell’atroce sofferenza e solitudine di un’ambulanza, dove l’accesso è consentito solo a un’equipe medica, come solo ai sacerdoti era consentito l’accesso alla sacra cella del tempio.
Forse non può esserci risposta a queste mie domande all’interno dell’attuale sistema medico-sanitario, fondato su una cornice epistemologica di tipo cartesiano.
Forse sarebbe urgente ripensare, all’interno di un più ampio cambiamento della società, un sistema più attento all’uomo come organismo vivente complesso, e non solo come una macchina che è possibile riparare mediante protesi e ricambi meccanici o elettronici, il cui stato di salute dipende soprattutto dallo stato di salute dell’ecosistema in cui vive: cominciando dal riumanizzare i sacerdoti del tempio.
Cordali saluti
Paolo Baffari
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Non con i miei soldi. Non con i nostri soldidi don Marcello CozziParlare di pace in tempi di guerra è necessario, ma è tardi.
Non bisogna aspettare una guerra per parlarne. Bisogna farlo prima.
Bisogna farlo quando nessuno parla delle tante guerre dimenticate dall'Africa al Medio Oriente, quando si costruiscono mondi e società sulle logiche tiranniche di un mercato che scarta popoli interi dalla tavola dello sviluppo imbandita solo per pochi frammenti di umanità; bisogna farlo quando la “frusta del denaro”, come ...-->continua
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